Editoriale

Cerchi un perché e trovi solo il vuoto

La storia di Michael e Matteo ci toglie il fiato, prima di tutto, perché non si può riordinare.

Cerchi un perché e trovi solo il vuoto
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C'è un uomo di 37 anni che affronta un pomeriggio di lavoro in piscina, come ogni giorno, in un venerdì caldissimo di giugno. C'è un bimbo di appena 4 anni che finisce in acqua, esattamente nel momento sbagliato e nel luogo in cui è sempre più facile non essere visto: in mezzo alla folla. Ci sono minuti che passano, troppi. Una vita che si sbriciola troppo presto, in pochi centimetri d’acqua, senza far rumore. Non si può urlare, quando si annega.
Chi fa il bagnino, o in generale il soccorritore, è formato per far fronte all’imponderabile. E sa anche che a volte, purtroppo, non basta. In Matteo, però, venerdì nasce un pensiero che si insinua sotto la pelle: il senso di un peso che diventa più pesante ogni ora, ogni notte.
Domenica, a Bergamo, Michael muore. Matteo la notizia la legge online, o forse lo viene a sapere altrove. E quel pensiero, un’idea informe, diventa di colpo enorme e scura. L'incolpevole, ma lucida e pesantissima, impotenza di fronte all'assurdo, lo travolge. «Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta» scriveva il poeta russo Majakovskij, prima del proprio suicidio. La responsabilità (che sarà comunque eventualmente da accertare) non è una colpa. Eppure, per Matteo, lessico e ragione sono andati in corto circuito.
Forse, chissà, è andata proprio così. Il Monte Orfano, caldo e buio, martedì sera, assiste all'ultimo atto della tragedia.
Non resta nulla: due vite di un bimbo e di un uomo si sono incrociate per pochi attimi, e sono deragliate insieme. La loro storia ci toglie il fiato, prima di tutto, perché non si può riordinare. Non c'è un cattivo che uccide. Non c'è la malattia, che tira a caso e colpisce. È una storia di morte, ma senza carnefici e senza consolazioni. Cerchi un perché, e trovi il vuoto.

Davide D’Adda