Banca Popolare di Sondrio

L'intervento di Zamagni per la Banca Popolare di Sondrio

In occasione dell'Assemblea dei Soci di quest'anno la Banca ha integrato la sua dichiarazione non finanziaria con un importante prefazione del professore Stefano Zamagni

L'intervento di Zamagni per la Banca Popolare di Sondrio
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Un'assemblea dei Soci molto diversa quella di quest'anno per la Banca Popolare di Sondrio. L’istituto quest'anno comunicherà l'esito attraverso altri strumenti come, a esempio, una doppia pagina che sarà pubblicata su “Centrovalle” in edicola da sabato 13 giugno

Un'Assemblea dei Soci particolare

Convocata per le ore 10 di venerdì 12 giugno presso la sede di piazza Garibaldi 16 l'assemblea dei Soci 2020 della Banca popolare di Sondrio. Quella di quest'anno sarà un’assise molto diversa rispetto a quella tradizionale che si svolgeva al Pentagono di Bormio e dove i vertici dell'istituto hanno sempre illustrato il bilancio davanti a una nutrita rappresentanza della compagine sociale, mai inferiore ai 4mila Soci. La diversa modalità di svolgimento dell’assemblea è conseguenza  dell’emergenza sanitaria Covid 19 e farà sì che l’intervento dei Soci avvenga esclusivamente tramite il Rappresentante Designato ex art. 135-undecies del D.lgs 24 febbraio 1998 n. 58 (TUF).

L'odine del giorno della Banca Popolare di Sondrio

L'ordine del giorno prevede l’approvazione del bilancio al 31 dicembre 2019, la nomina per il triennio 2020-2022 di cinque amministratori e di un proboviro effettivo, l’integrazione del numero dei componenti del Collegio dei probiviri, l’autorizzazione all’acquisto e alienazione di azioni proprie e la determinazione dei compensi degli amministratori.

La Dichiarazione non Finanziaria

Ma al di là dei numeri, molto importanti, la Banca Popolare di Sondrio, quest'anno, ha integrato la “Dichiarazione non Finanziaria” con una prefazione affidata al professor Stefano Zamagni, economista di grande fama e particolarmente apprezzato per i suoi studi in materia di economia sociale, presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali ed ex presidente dell'Agenzia del Terzo Settore. Nello scritto, l’insigne accademico che, tra le altre cose, ha collaborato con Papa Benedetto XVI per la stesura dell'enciclica “Caritas in veritate”, riassume la mission della banca, il suo Dna e il suo modus operandi sul territorio: banca “del” territorio e “per” il territorio.

L'intervento del professor Zamagni

I portali del gruppo Netweek, grazie alla disponibilità della Banca Popolare di Sondrio dello stesso professor Zamagni, offrono ai propri Lettori, questo interessante intervento.

Tante sono le ragioni per compiacersi con la Banca Popolare di Sondrio per la sua “Dichiarazione di Carattere non Finanziario 2019” che ora viene presentata all’attenzione e al giudizio del lettore. In primis, per la chiarezza espositiva e per la completezza dell’informazione. In secundis per la scelta di metodo adottato, una scelta che fa tesoro dei risultati più accreditati della letteratura scientifica in materia. Infine, per il messaggio che è possibile trarre leggendo con attenzione le righe di questo documento. È su quest’ultimo punto che desidero qui focalizzare, pur in breve, la mia attenzione.

La Banca Popolare di Sondrio ha la natura di impresa cooperativa, ciò che ne definisce l’identità profonda. La cooperazione di credito è un fenomeno prettamente morfogenetico, un fenomeno cioè ad elevato grado di cambiamento che evolve sia per spinte interne sia in seguito alle trasformazioni socio-economiche che caratterizzano l’ambiente di cui è parte. Nell’Ottocento e in gran parte del Novecento, le cooperative di credito nascono e si espandono nelle aree ad avanzato grado di sviluppo per scongiurare l’emarginazione dei segmenti deboli della popolazione. Ma nel corso dell’ultimo quarantennio, in parallelo con la transizione dalla società industriale a quella post-industriale, la cooperazione di credito è stata capace di trovare nuove ragioni d’esistenza, che ne legittimano il consolidamento, e che ne definiscono la nuova identità.

Una di tali ragioni ha a che vedere con una peculiare caratteristica del ben noto fenomeno della globalizzazione. Fino a tempi recenti, diffuso era il convincimento secondo cui il processo di globalizzazione avrebbe condotto ad una progressiva scomparsa della dimensione del locale: con l’abbattimento delle frontiere tra territori nazionali – si diceva – tutte le relazioni economiche sarebbero divenute globali. Eppure questo non è accaduto, a dispetto di quanto avevano congetturato molti e rispettati studiosi. La globalizzazione ha invece generato un nuovo fenomeno osservabile a livello sia economico, sia sociale e politico, noto come “glocalizzazione" (dall’inglese glocal, termine che indica l’unione di globale e locale). Invero, la globalizzazione ha fatto “risorgere” l’importanza della dimensione locale. Nella stagione precedente era piuttosto quello nazionale il livello ideal-tipico degli interventi di politica economica. Oggi invece sono i territori i luoghi privilegiati in cui si sperimenta il nuovo e dai quali provengono i più significativi impulsi allo sviluppo. La caduta di rilevanza del dibattito sulle cosiddette politiche industriali nazionali – fino a venti anni fa, uno dei temi più importanti dell’agenda politica di qualsiasi governo nazionale – testimonia questo spostamento dell’asse dell’attenzione nel dibattito politico ed economico.

Il punto è che la globalizzazione non solo non ha fatto scomparire l’importanza del territorio ma lo ha rilanciato, e ciò nel senso che la gara competitiva oggi si gioca a livello dei territori. Mentre in passato la competizione riguardava le singole imprese o i singoli gruppi, che potevano uscirne vincitori o perdenti, a seconda dei casi, ciò che sta succedendo oggi è che il destino delle imprese è legato a quello del loro territorio. Se un territorio “fallisce”, falliscono anche le imprese che in quel territorio operano e viceversa: il successo di un territorio è legato a doppio filo al successo delle imprese che su di esso insistono. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che ha colto di sorpresa non pochi osservatori, costringendo ad un ripensamento radicale delle politiche nazionali; in Italia è solo in questi ultimi anni che si è raggiunta piena consapevolezza su queste dinamiche. Si pensi agli interventi programmati per il Mezzogiorno d’Italia, che si sono rivelati fallimentari proprio perché espressione della convinzione che lo sviluppo del Mezzogiorno dovesse essere pensato e governato dal centro senza tener conto delle matrici culturali che definiscono l’identità di un territorio. Simili logiche se potevano avere un qualche senso un tempo, certamente non ne hanno alcuno nell’epoca attuale. Non può più essere il livello nazionale a decidere le grandi strategie di sviluppo, trasferendole poi alla periferia per la loro implementazione; piuttosto è il locale che deve essere in grado di riacquistare la propria capacità di innovazione rimasta così tanto a lungo messa in disparte, durante la lunga stagione della società industriale.

Da questo discende l’importanza vitale della banca del territorio che è cosa diversa dalla banca locale. Ebbene, una banca come la Bps è una vera banca del territorio (da non confondersi con la banca di territorio). Il punto da rimarcare è che le nostre economie di mercato hanno bisogno di soggetti che, come le Popolari, sanno orientare la loro azione a fini diversi da quello della massimizzazione dello shareholder value. La cooperazione di credito – si badi – mai ha preteso di sostituire la finanza di tipo speculativo; piuttosto ha sempre difeso l’importanza delle complementarità strategiche. È per questa ragione che le Popolari, da sempre, hanno inteso porre il loro tratto identitario nella capacità di stare dentro il (e non fuori o a lato del) mercato pur adottando una logica di azione non capitalistica. È questa la “bestemmia” che a molti dà fastidio: come è possibile stare nel mercato, rispettandone i principi basici (efficienza, produttività, competizione, sviluppo) senza perseguire il solo fine del profitto, ma quello della mutualità interna fra soci e quella esterna con il territorio?

Si osservi che mentre la banca commerciale dà valore al mercato – il che è cosa in sé buona –, la banca popolare dà mercato a valori quali mutualità, governance democratica, reciprocità, fraternità. Proprio in ciò sta la complementarità di cui ho detto sopra. Non è capace di futuro la società nella quale si cerca di avvalorare, cioè di dare valore, a soggetti che mirano al solo profitto. Se valori come quelli appena ricordati restano fuori dall’arena del mercato, confinati in sfere come la famiglia, i gruppi sociali, l’associazionismo, mai riusciremo a civilizzare il mercato, a renderlo cioè strumento per il bene comune. Un mercato che è solo efficienza non promuove la condizione umana. Ecco perché ritengo sia giunto il momento in cui le “banche con l’anima” si pongano l’obiettivo di elaborare una metrica in forza della quale sia possibile misurare il contributo specifico che questo tipo di impresa dà alla creazione del valore aggiunto sociale, un contributo che oggi sfugge completamente alla contabilità nazionale. In altri termini, si tratta di misurare il valore delle esternalità positive create dal sistema del credito cooperativo e quindi si tratta di passare da un bilancio sociale che si limita a descrivere ciò che viene realizzato sul territorio dalle singole banche, ad un bilancio che misuri anche i benefici da esse generato per quanto concerne la diffusione della democrazia; la riduzione delle disuguaglianze; il rafforzato della libertà (positiva).

Si pone la domanda: è possibile che attributi qualitativi possano essere misurati?
Certo che lo è; perché non è vero che solamente le quantità possono essere misurate. D’altro canto, non è forse vero che gli IAS prevedono già la possibilità, specificando anche la metodologia, di avvalorare i cosiddetti asset intangibili? Allora, perché mai un’impresa capitalistica può iscrivere in bilancio il valore di una pluralità di poste immateriali, mentre all’impresa cooperativa ciò dovrebbe essere impedito? Può essere interessante sapere che la recentissima Proposta di Risoluzione del Parlamento europeo sull’economia sociale (2008/2250 INI) prevede al punto 8: «L’invito alla Commissione e agli Stati membri a sostenere la creazione di registri statistici nazionali per settore istituzionale e per branca di attività, e a favorire l’introduzione di questi dati dentro Eurostat».  Come si può comprendere, si tratta di un passo avanti di grande portata. Sarebbe massimamente irresponsabile perdere una tale occasione. Le “Banche con l’anima” devono porsi alla guida, in Europa, di questo processo, anche per scongiurare il rischio che l’individuazione dei nuovi criteri di rilevazione statistica venga affidata a persone, bensì competenti sotto il profilo tecnico, ma incapaci di comprendere la portata delle categorie di pensiero che da sempre guidano l’azione di tali banche.

Alla luce di quanto precede, si riesce a comprendere perché l’approvazione da parte del Governo italiano nel gennaio 2015 del c.d. “Decreto Banche Popolari” abbia sollevato così tante critiche e prese di posizione contrarie. Invero, se si leggono con attenzione le dichiarazioni e le relazioni che sono state stese per legittimare tale Decreto, non si tarda a scoprire che l’argomento principe è quello dell’efficienza. Tre sono infatti le esigenze che vengono elencate per sostanziare il provvedimento. Una prima è quella di fornire più credito alle imprese e rilanciare così l’economia; una seconda è quella di assecondare le indicazioni dell’Unione Bancaria Europea; una terza, infine, è quella di rendere più solide le banche, dopo la devastante crisi del 2007-2008. Da qui la conclusione che le banche popolari – sui cui meriti storici nella promozione e sostegno dello sviluppo locale nessuno osa obiettare – non sarebbero più funzionali alle esigenze della nuova geoeconomia e alle peculiarità della odierna industria finanziaria (economie di scala; capacità di valutare i grandi rischi; apertura ai mercati globali; ecc.).

Anche un non addetto ai lavori, purché intellettualmente onesto, comprende che le motivazioni addotte non sorreggono la conclusione che invece si vorrebbe far credere fondata su argomenti solidi. Ecco perché nei piani alti della teorizzazione economica è stata avanzata, di recente, un’altra linea giustificazionista. L’argomento, in breve, è il seguente. Il nuovo modello di sviluppo richiede che, in aggiunta alla flessibilità del lavoro, si faccia spazio alla flessibilità del capitale, cioè alla possibilità di riallocare il capitale tra le imprese per consentire al noto meccanismo della distruzione creatrice (J. Schumpeter) di liberamente esplicarsi. In sostanza, si tratterebbe di impedire sia che imprese inefficienti ottengano troppo capitale sia che imprese altamente efficienti ne ottengano troppo poco. Come fare? Facilitando in tutti i modi la riallocazione del credito e soprattutto la riallocazione del capitale di rischio. Ebbene, la cooperazione di credito, proprio per le sue caratteristiche “naturali”, intralcerebbe il pieno dispiegamento di quel meccanismo: privilegiando l’erogazione del credito ai soci, agli operatori del territorio, essa finisce con lo scoraggiare l’entrata nel mercato di imprese a più alto potenziale di sviluppo.

Cosa non va in questo argomento? Una duplice considerazione. In primo luogo, chi ragiona in quei termini dimentica che quella di efficienza non è una categoria primitiva, perché si può giudicare efficiente un comportamento oppure un esito solamente dopo che si è indicato il fine che il soggetto economico intende, liberamente, perseguire. Giova ricordare che  l’inventore del concetto di efficienza economica, cioè Vilfredo Pareto, già agli inizi del Novecento l’aveva ben chiarito quando distinse tra efficienza-ofelimità e efficienza-utilità, per significare che una stessa azione può essere efficiente per il singolo attore – la prima nozione – ma non per il sistema nel suo assieme – la seconda nozione. Ma è accaduto che gli sviluppi successivi dell’analisi economica hanno fuso assieme – non certo per dimenticanza o per non conoscenza – le due nozioni di efficienza, col risultato che oggi si parla di efficienza in riferimento al solo fine della massimizzazione del profitto (ovvero dello shareholder value). È ovvio, allora, che se una impresa, come una banca popolare, non intende per sua scelta perseguire un tale obiettivo, essa verrà giudicata inefficiente. È veramente preoccupante che perfino studiosi illustri non si avvedano di quanto aporetica sia tale linea di pensiero.

La seconda considerazione concerne la risposta a tale domanda: a chi spetta definire l’obiettivo rispetto al quale andare poi a misurare l’efficienza della performance economica di un soggetto? Non certo a coloro che già occupano posizioni dominanti entro il mercato: sarebbe come chiedere all’oste se il suo vino è buono. La titolarità di un tale compito non può che spettare alle società nel suo insieme e non solo ad una sua componente, sia pure forte e autorevole. E quali altri fini, in aggiunta a quello dell’efficienza, una società matura andrebbe verosimilmente ad indicare se fosse posta nelle condizioni reali di poter deliberare in merito? Non esito ad indicarne tre.

Il primo è la dilatazione degli spazi di democrazia economica. Sappiamo che la democrazia politica non può reggere a lungo se non è supportata da una autentica democrazia economica, intesa come pluralità delle forme di impresa operanti nel mercato (già l’aveva compreso Albert Gallation, uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, quando scrisse nel 1795: «Il principio democratico su cui è stata fondata questa nazione non deve essere ristretto ai soli processi politici, ma deve trovare concreta applicazione al settore dell’economia»).

Un secondo fine è quello dell’equità ovvero della giustizia sociale. È inutile stracciarsi le vesti di fronte ai dati che documentano di un aumento scandaloso delle diseguaglianze tra gruppi sociali di uno stesso Paese, oltre che tra Paesi diversi, se poi si impedisce nei fatti che imprese come le banche possano svolgere la loro funzione contro l’aumento endemico delle disuguaglianze. Nella stagione della globalizzazione, le esternalità pecuniarie hanno assunto una rilevanza ignota alle epoche precedenti. A differenza delle esternalità tecniche, che provocano una divergenza tra costo privato e costo sociale di un bene o servizio – si pensi alla fabbrica che inquina l’ambiente emettendo fumi – le esternalità pecuniarie sono le conseguenze inattese associate alle variazioni di prezzo. Ciò significa che il sistema dei prezzi non è solamente un meccanismo per l’allocazione efficiente delle risorse, ma anche un invisibile strumento di distribuzione dei redditi e della ricchezza. Sono dunque le esternalità pecuniarie – di cui quasi mai gli economisti parlano – il principale fattore generatore delle diseguaglianze sociali. Ebbene, la cooperazione riduce la forza dirompente delle esternalità pecuniarie e pertanto opera per migliorare le cose sul fronte della giustizia correttiva.

Infine, non si può non fare parola della libertà di poter scegliere (obiettivo diverso della semplice libertà di scegliere) la forma d’impresa bancaria che una determinata comunità ritiene più confacente alla propria storia e più adeguata ad interpretare le proprie prospettive di sviluppo. Non consentire la biodiversità bancaria, in nome del malaugurato principio secondo cui one size fits all, costituisce una patente violazione del principio di libertà che una civile economia di mercato non può tollerare.

Alla luce di quel che precede si può comprendere quanto poco saggio sia il tentativo di tutti coloro che, da sponde diverse e con argomenti speciosi, vorrebbero mettere la sordina al credito cooperativo, riservandogli irrilevanti posizioni di nicchia, in nome del falso mito dell’efficienza. Ecco perché battersi per difendere la biodiversità finanziaria significa impegnarsi per una autentica conquista di civiltà, la quale mai potrà accettare che sull’altare dell’efficienza e quindi della sola crescita si possano sacrificare principi fondativi del consorzio umano come la democrazia, l’equità, la libertà.

Devo concludere. L’auspicio che formulo per la Banca Popolare di Sondrio è che si adoperi di continuare a far tesoro del monito che il noto mito di Anteo ci consegna. Tutte le volte in cui il gigante Anteo, figlio di Poseidone e Gea, riusciva a toccare terra acquistava una forza tale che gli consentiva di vincere contro ogni avversario – era questa la dote che la madre Gea gli aveva lasciato. Eracle, suo antagonista, venuto a conoscenza della cosa, per riuscire ad abbattere Anteo, con uno stratagemma lo solleverà da terra per colpirlo a morte. Ebbene, fin quando la Banca Popolare di Sondrio resterà ancorata a terra – vicina cioè ai bisogni reali della sua comunità, interpretandone desideri e aspirazioni – mai avrà nulla da temere, nonostante i tanti Eracle che cercheranno di distoglierla dalla sua missione specifica. E per un tale scopo non c’è di meglio che investire, in modo sistemico, in corporate culture. Thomas Eliot, il celebre poeta e scrittore angloamericano del Novecento, ha scritto che la cultura è come l’albero. Il quale non si può costruire; lo si può solo piantare e attendere che cresca. Bisogna però concimarlo e annaffiarlo, se si vuole che cresca robusto e in fretta. È in ciò il segreto del successo della Banca Popolare di Sondrio, alla quale va la mia lode.

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