«Quando andavo a lavorare mi sembrava di andare a far festa»

«Quando andavo a lavorare mi sembrava di andare a far festa»
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«Sono nata a Montichiari, mi sono sposata qui dove ho sempre vissuto: questo è il mio comune, che non vorrei mai lasciare»: così esordisce Jole Bignotti, nell’intervista che mi ha rilasciato in occasione della raccolta di testimonianze utili a documentare laMontichiari del Novecento. Purtroppo oggi Jole non c’è più, ci ha lasciati nel 2014, ma i ricordi della sua vita e del suo lavoro sono esemplari per comprendere il percorso socio-economico del nostro paese e dei territori circostanti.

Jole nasce il 2 aprile 1931 nella frazione di Bredazzane da una famiglia di salariati agricoli alle dipendenze della famiglia Lazzari, che gestiva un grande fondo agricolo di proprietà ecclesiastica dove prestavano manodopera tante famiglie di braccianti. Si coltivavano mais, frumento ed erba medica da somministrare al bestiame.

«Man mano che si cresceva si andava a lavorare fuori, per portare a casa qualche soldo. Erano tempi di miseria, quelli. Tanti erano proprietari di qualche piò di terra mentre noi salariati non avevamo niente, solo la casa sotto cui ripararci», racconta Jole. «A tredici anni io ero già fuori casa: sono andata a fare la cameriera come tante mie coetanee. Ma non era un lavoro che mi piaceva tanto, così, due anni dopo, ho trovato impiego presso la fabbrica di giocattoli Poli in Borgosotto, dove sono stata dal ’45 al ’58. Quando andavo a lavorare mi sembrava di andare a far festa: venendo dalla campagna per me quell’esperienza rappresentò un motivo di emancipazione. Lì si poteva parlare, ci si scambiava idee, si imparava a vivere. Costruivamo giocattoli e casalinghi in legno. Mi son fatta voler bene anche dai padroni, ero trattata bene e forse meglio di altre ragazze, probabilmente perché ero capace di fare il mio dovere grazie all’educazione ricevuta in campagna. A tanti piaceva lavorare, ad altri meno. Io sono sempre stata attaccata al lavoro, sin da bambina».

Jole, cosa ricordi dello stabilimento Poli, com’era organizzato il lavoro? 

«Ci son stati periodi in cui eravamo anche in duecento e a volte anche di più. La maggior parte erano ragazze, tutta gente soprattutto nativa della zona centrale del paese, ma anche delle frazioni di campagna, da Bredazzane, dai Chiarini, dai Novagli. Uscivamo tutti dalla miseria e cercavamo il lavoro per diventare più civili. Stando nel gruppo di operai e operaie per me era come andare in paradiso, mi sembrava di progredire socialmente rispetto all’ambiente contadino da cui provenivo.

Si veniva tutti in bicicletta e tante volte anche a piedi perché in famiglia eravamo in tanti e la bici era una sola. La nostra fortuna fu di essere pagati con uno stipendio equo, con l’assicurazione, la maternità, le ferie pagate. Ricordo che guadagnavo 30.000 lire al mese. Mi vantavo perché prendevo tanto quanto prendeva mio padre! All’epoca Poli, il filatoio e la fabbrica di mattonelle erano gli unici stabilimenti di Montichiari ed erano un’importante fonte di guadagno per le famiglie contadine con figli. Da agosto a dicembre si lavorava più di otto ore al giorno perché si dovevano realizzare i giocattoli in previsione di Santa Lucia e Natale. C’era chi tagliava il legno, chi lo piallava, chi lo tagliava con le circolari, chi lo lucidava sotto le ‘pulizzoie’, chi assemblava, chi pitturava, chi inscatolava il giocattolo finito e, infine, chi era addetto alla spedizione: era un lavoro organizzatissimo, fatto molto di fino. Le cose si facevano per bene, i giocattoli erano bellissimi: barche, casette, pianoforti giocattolo in legno di faggio. Ricordo che io portai a casa un monopattino. Realizzavamo anche appendiabiti, posa abiti, zoccoli. Si usciva bianchi di polvere di legno perché allora non c’erano gli obblighi di aspirazione che ci sono oggi. Qualcuno, soprattutto gli uomini che lavoravano alle macchine, ne usciva un po’ segnato, perché era un po’ pericoloso. Spesso cantavamo, soprattutto la sera quando stavamo a lavorare un’ora in più. Cantando, non si perdeva la concentrazione rispetto al parlare. Io ero un tipo che voleva sempre lavorare ed è forse per quello che mi volevano bene. Non ho mai fatto ferie, tranne i giorni di Ferragosto e a Natale. Poi è arrivata l’era della plastica e il figlio della proprietaria dello stabilimento decise di chiudere. Erano gli anni in cui si cominciava a vivere, e tanti sono andati a cercare lavoro altrove: chi nell’edilizia, chi nelle fabbriche di Brescia: l’OM, la Franchi, la Tempini, la Breda, la Sant’Eustacchio…».

E tu, Jole, come hai proseguito la tua vita? 

«Io poi mi son chiusa “nel mio”: mi sono sposata con Angelo Castelli e abbiamo avuto cinque figli. Abbiamo sempre vissuto in Borgosotto, in vicolo Moreni. Mio marito faceva il commerciante ambulante di alimentari, mentre io ho aperto una bottega di campagna a Bredazzane che è stata attiva per 24 anni. Vendevo un po’ di tutto: dagli alimentari ai tabacchi, dalla cartoleria al sale, dai detersivi ai cascami, dai mangimi per animali alle farine e alla pasta; persino lacci delle scarpe, un po’ di merceria, spolette… In frazione ho chiuso nell’86, ma per altri sei anni ho fatto lo stesso mestiere in paese, aiutata da una delle mie figlie. Ho smesso quando è morto mio marito. Avevo già 67 anni».

Se guardi indietro il tuo passato, come pensi sia stata la tua vita, Jole? 

«Credo che per Montichiari ho fatto qualcosa! Se potessi, tornerei indietro rifacendo tutto. E soprattutto tornerei là, in quel giocattolificio dove ho imparato a stare in mezzo alla gente. Ho lavorato tanto, tutta la vita. Con cinque figli da allevare, tempo e soldi per le ferie non ne ho mai avuti. Il mare, l’ho visto per la prima volta nel 2006! Ai giovani voglio dire che non bisogna avere paura, e non bisogna avere paura del lavoro, che va fatto bene, e la fatica è ripagata da tante soddisfazioni».


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