Quando lessi «Cantare nel buio» pensai che non avevo mai letto un libro che descrivesse così bene le storie che avevo sentito in casa. Frammenti che tanti, nell’«Ovest», avevano toccato. Chi non ha mai ascoltato, dalla voce dei nonni, i racconti di quel viaggio quotidiano verso Milano, fatto di levatacce all’alba, treni affollati e la speranza di un futuro migliore? Di quella grammatica di sacrifici, comunità e fatica condivisa che nel dopoguerra ha plasmato l’identità di generazioni.

Cantare nel buio ripubblicato dopo trent’anni
Quelle stesse memorie hanno preso vita in «Cantare nel buio» pubblicato all’inizio degli anni Novanta che oggi torna in libreria in una nuova edizione (Tartaruga di Baldini & Castoldi) e diventa l’occasione per ricordare la sua autrice.
Qualche anno prima, lo stesso dattiloscritto chiamato «Il Treno della pazienza», venne rifiutato da Italo Calvino. A scrivere quel piccolo gioiello, era stata Maria Corti che sarebbe diventata scrittrice e futura filologa ma che all’epoca, insegnava al liceo ginnasio inferiore di Chiari e quotidianamente rientrava in treno da Milano, dopo aver dedicato i pomeriggi alle ricerche all’Università Cattolica.

Operai in viaggio ogni giorno su quei “carri bestiame” verso Milano
Dai viaggi su quel convoglio di carri bestiame, che trasportava quotidianamente gli operai pendolari tra Brescia e Milano, fra l’inverno del ’47 e l’estate del ’48, venne scritta la prima stesura dell’opera, riscoperta, dopo che fu dimenticata (snobbata) per decenni.
L’ispirazione partiva dall’osservazione poetica di quella schiera di lavoratori che si incamminava col buio e tornava col buio, animata da una consapevolezza di un’epica comune e un destino manifesto impastato di fatica e privazioni. Una visione autentica che raccontava un’umanità che si spostava fra la nebbia e la speranza. Antenati della futura «terra dell’abbondanza» che da binari sarebbe diventata autostrada, piena di cottimisti e furgoncini, protagonisti del miracolo economico.
La quotidianità della comunità operaia
In «Cantare nel buio» c’è la quotidianità della piccola comunità operaia e la suggestiva storia d’amore fra Faustino e Armida che rappresentano due visioni agli antipodi della modernità. Dentro una «questione privata», l’autrice è riuscita a farne uno studio antropologico. La modernità che iniziava ad affogare il mondo contadino. Saggezza e riti ancestrali contro razionalità, giustizia e cambiamento.
Questo l’effetto che ha fatto a tanti, leggendo le vicende ambientate fra i fumi della nebbia e i sapori della campagna. «Accadeva nella pianura lombarda a certe ore: quando nel crepuscolo ondate di nebbia facevano sparire e ricomparire la campagna, una cosa nera fuori del comune entrava e usciva dalla nebbia» si legge. Di Chiari si leggono le corse in bicicletta alla stazione, i bagliori della Villa Mazzotti, la geografia chiassosa e comunitaria delle cascine e i rintocchi del custode del campanile.
Un esempio di letteratura industriale, che ha fatto della nostra «terra esigente e severa» qualcosa di universale. Oltre il neorealismo, Corti ha cantato esistenze normali, ma piene di valore, diventate eccezionali e che, per la prima volta balzavano, nella storia. Uomini di paese che insegnavano a non avere paura della fatica. Che non voleva arrendersi come quel canto fischiettato nel buio e descritto nel libro che rompe il silenzio. Dà orgoglio pensare di essere figli di quel tempo.
Andrea Bianchi
