Il giro del mondo in soli otto chilometri

Il giro del mondo in soli otto chilometri
Pubblicato:

«Hai voluto la bicicletta? E adesso pedala». Qualcuno deve aver detto così, incurante del pericolo, ad un giovanissimo Davide Boifava, quando per la prima volta inforcava le due ruote e correva verso i propri sogni.
A quasi sessant'anni di distanza, i chilometri che ha percorso in sella a quella bicicletta sono quasi nove. 8.4, per la precisione. Gli stessi che separano la dimora di una vita, in quella campagna di Nuvolento dove qualcuno gli sussurrò quella frase, e l'elegante ufficio di Ponte San Marco dove scruta il freddo paesaggio della strada statale, in un mondo che ormai va troppo di fretta anche per lui, lui che la velocità l'ha vista da vicino.

Nel mezzo, tra il paesino che l'ha visto nascere e la frazione dove vende biciclette e articoli da ciclismo ai massimi livelli, con un'umilità davvero d'altri tempi, Davide Boifava ha visto e conosciuto il mondo intero. Dalle gare vissute in prima persona a inizio carriera fino a quella metamorfosi a team manager che gli è valsa successi in ogni angolo della Terra. Dal primo contratto firmato in quello stesso ufficio di Ponte San Marco da un giovanissimo Marco Pantani («un'umiltà che ti spiazzava ogni volta») fino alla scelta di ritirarsi dalle scene agonistiche, maturata nel 2007, ma mai rimpianta. Un viaggio lungo, lunghissimo, quello di Davide Boifava, ma che si specchia a meraviglia solo in quei famosi 8.4 chilometri, unico tragitto ancora valido come costante della vita di un uomo nato nel segno dello sport e che nonostante i 70 anni ne parla ancora con lo stesso entusiasmo di quel ragazzino scartato dalla squadra di corridori del paese «perchè era troppo magro».

Le storie da raccontare, di cui è stato artefice o protagonista, sono infinite. Ha respirato e respira sport da tutta una vita, vincendo praticamente tutto quello che c'era da vincere. Un vincente che nonostante i trionfi non ha lasciato il paese in cui è nato, tornando sempre a casa dopo ogni Tour de France, dopo ogni Vuelta di Spagna, dopo ogni trasferta internazionale. E' questo il suo segreto?
«Le origini non sono il mio segreto, sono il mio vanto. Essere cresciuto e fare parte di una famiglia di contadini mi rende orgoglioso ancora oggi. Eravamo tanti e a quei tempi potersi permettere l'abbonamento dei mezzi pubblici per andare a lavorare era un lusso. Noialtri ci arrangiavamo con la bici, era il nostro unico modo di muoverci».

Da quelle pedalate, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Forse sotto i ponti proprio di quel fiume Chiese che separa Nuvolento e Calcinato. In ogni caso, da mezzo di locomozione dedicato ai meno ricchi (per usare un eufemismo), la bicicletta è stata protagonista di una vera e propria rivoluzione sociale.
«Il mondo è cambiato, e anche parecchio. La bicicletta è diventata un vero e proprio status symbol al giorno d'oggi. Da mezzo per i meno agiati è diventata fiore all'occhiello di borghesia e classi ricche, cambiando in modo radicale anche il mercato che la coinvolge».

Mercato che Boifava ha saputo interpretare bene, con la produzione di biciclette e attrezzature dedicate al ciclismo che spopolano in tutto il mondo.
«Il ciclismo è diventato uno sport per ricchi, i costi di biciclette e attrezzature non sono all'altezza di tutti e questo frena il movimento mondiale, anche se resta uno degli sport più seguiti. Settimana prossima sarò in Asia per un’importante fiera, il mercato asiatico è in crescita anche per quanto riguarda le biciclette».
Come ciclista ha raccolto tanti successi, ma il vero capolavoro le è riuscito da team manager. In molti la descrivono come un vero e proprio «talent scout» dei giovani ciclisti, le bastavano pochi attimi per capire chi aveva la stoffa per arrivare fino in fondo. Almeno qui, un segreto deve averlo.

«I comportamenti dei ragazzi mi dicevano tutto. La stretta di mano, il modo di salutarti, la presentazione: tutti piccoli segnali che mi raccontavano molto più di una persona rispetto a quanto potesse raccontarmi lei stessa. La cura dei rapporti personali e il contatto diretto con gli atleti spesso facevano il resto, ma a differenza degli sport di squadra, qui se qualcuno deve emergere, in qualche modo vi riesce. Partono tutti, ma ad arrivare non sono in molti».
Ciclismo che nonostante sia uno sport individuale si trasforma in un eterno gioco di squadra se l'obiettivo è toccare davvero l'apice del successo.

«Non proprio, è vero che puoi contare su compagni di squadra su cui appoggiarti, ma una volta che sei sulla bicicletta l'unica compagnia che riesci a vedere è quella offerta da te stesso, dai tuoi obiettivi e dai tuoi traguardi, nient'altro».
Tra i mille campioni che ha visto passare nella sua vita, forse quello più amato dal mondo è stato Marco Pantani, una vera leggenda della disciplina e di cui lei è stato primo e ultimo manager. Che persona era, in due parole, Marco?
«Umiltà e sacrificio. Pensa che quando ha firmato il suo primo contratto con la Carrera era proprio in quest'ufficio, nello stesso posto in cui sei seduto tu in questo momento. Un ragazzo straordinario che ha dato tutto se stesso per questo sport, dal primo all'ultimo istante in cui l'ho conosciuto».
Nonostante il ritiro dalla scena agonistica ha mantenuto aperti i rapporti con moltissimi protagonisti del mondo sportivo, appassionatisi al ciclismo proprio nei suoi anni d'oro.
«Proprio pochi giorni fa ho incontrato i genitori di Marco, passano spesso a trovarmi. Come incontro spesso gente come Fabio Capello, Gian Piero Gasperini e Giovanni Trapattoni. Tutti grandi sportivi che hanno amato e amano ancora oggi il mondo del ciclismo».

Emozionante pensare come, senza allontanarsi dalla propria casa, lei è riuscito e riesce a portare i vertici del mondo sportivo fino all'ufficio di Ponte San Marco in cui lavora. I nomi sono altisonanti, ma dal vivo che persone sono?
«Si tratta di persone normali, come me, come te e come tutti noi. Gerry Scotti, ad esempio, ha la stessa identica disponibilità e vena ironica che gli vediamo sfoggiare in televisione. Anche Capello e il Trap hanno queste doti, fondamentali per chi vive nel mondo dello sport. Vengono spesso a trovarmi».

Tra i vip che mi ha elencato, molti fanno parte del mondo del calcio. Che rapporto ha con questo universo parallelo?
«Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni, parlo di cambiamenti radicali che hanno inevitabilmente coinvolto tutto il mondo sportivo, tra cui calcio e ciclismo. Al calcio rimprovero i tanti fallimenti che vedo maturare in tutta Italia, con le squadre professionistiche sempre più zeppe di stranieri e con sempre più giovani che abbandonano la borsa. Mi chiedo se gli allenatori siano adatti e preparati, perchè vedere un ragazzo abbandonare lo sport è una delle più grandi delusioni che conosco».
Lo sport è cambiato, ma continua ad avere un forte valore sociale ed educativo.
«Sono questi i punti chiave del ragionamento. Per i giovani si tratta di un mondo difficile, molto difficile, da mille diversi punti di vista. Dal punto di vista lavorativo abbiamo sempre cresciuto i nostri ragazzi dicendogli di studiare e dopo anni di studio ci lamentiamo se gli manca esperienza e manualità. I rapporti umani sono scarsi, spesso rovinati da quei maledetti smartphone che non abbandoniamo nemmeno durante i pasti. L'unica bolla d'aria rimasta ai giovani è aggrapparsi allo sport e ai valori a cui è legato. Valori sociali e valori educativi che nel tempo diventano fondamentali nello sviluppo della persona e nel  contributo che essa darà al mondo. Un ragazzo che abbandona lo sport sicuramente ne ha tratto un'esperienza negativa, esperienza che porterà con sè nel corso degli anni e che un domani gli impedirà di rapportarsi con fiducia nell'insegnare ai propri figli i valori dello sport. E' una specie di circolo vizioso che non fa che alimentarsi».

E' per questo motivo che non le manca tornare in pista come team manager?
«I giovani d'oggi non sono i giovani di una volta. Spesso sono avari di valori e colmi di ambizioni e non ho rimpianti per essermi ritirato dalla scena agonistica. Se una volta, come sostiene qualcuno, avevo un certo intuito nel comprendere i ragazzi e portarli a un certo livello, ora il mondo è troppo cambiato perchè possa ripetere ancora una volta lo stesso giochetto».
Ripensa mai al passato, ai mille traguardi tagliati da lei e dai suoi ciclisti?
«No, guardare al passato non fa per me. Sono ricordi positivi, so di aver raggiunto grandi obiettivi e so come ci sono riuscito, senza perdere di vista le mie origini, ma guardare indietro non mi appartiene, rischi di vivere di nostalgia e la vita non è fatta per questo. Guardo avanti con fiducia, al futuro della mia azienda e della mia famiglia, credo sia l'unico modo per tagliare sempre nuovi traguardi».

Nuovi traguardi che non sono mai mancati nella vita di Davide Boifava, personaggio di rara umiltà e gentilezza, doti messe in mostra senza particolari proclami o discorsi da applausi, ma con la stessa «stretta di mano» e lo stesso «modo di salutare» che forse un giorno gli permisero di mettere le mani su veri e propri diamanti grezzi poi divenuti leggende del mondo dello sport. Origini contadine, una passione ancora viva per la cura del prato («è la mia attività preferita») e il per il mangime da dare alle bestie («come faceva papà»), ma in quegli 8.4 chilometri Boifava è riuscito a vedere l'intero mondo. Ha visto tappe del Giro, ha visto Tour e Vuelta di Spagna, ha visto Campionati Mondiali e ha visto campioni che appartenevano e appartengono ad un'altra razza. Campioni che appartenevano e appartengono ad altri tempi. Perchè Boifava, in fin dai conti, è quell'uomo d'altri tempi che partito in sella alla sua bicicletta, un tornante alla volta, ha toccato la vetta del mondo.

Per poi tornare a casa, proprio da dove era partito.


Seguici sui nostri canali