l'intervista

Giovane, donna e ricercatrice: Giulia vince il premio L'Orèal-Unesco

Si chiama Giulia Fredi, ha 28 anni ed è una donna di scienza. Un ingegnere dei materiali, per la precisione, il cui progetto sui poliesteri furanoati ha vinto una delle borsa di studio del premio "For woman in science"

Giovane, donna e ricercatrice: Giulia vince il premio L'Orèal-Unesco
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di Emma Crescenti

Si chiama Giulia Fredi, ha 28 anni ed è una donna di scienza. Un ingegnere dei materiali, per la precisione, il cui progetto sui poliesteri furanoati l’è valsa una delle sei borse di studio in palio con il «For Women in Science», un premio che L’Oréal e Unesco da oltre 20 anni (in Italia è la 18esima edizione) mettono in palio per sostenere le giovani donne ricercatrici sotto i 35 anni in ambito Stem (science, technology, engineering and mathematics).

Perché ti sei avvicinata al mondo della scienza?

«Cercavo un percorso di studi universitari che mi desse la possibilità di studiare le materie scientifiche in modo trasversale e applicato. Mi sono laureata prima in Ingegneria Meccanica e dei Materiali a Brescia e successivamente in Ingegneria dei Materiali a Trento, nel 2016. Le mie aspettative sono state soddisfatte. Durante i miei studi ho conosciuto professori e ricercatori davvero competenti e preparati, che mi hanno trasmesso l’entusiasmo per il loro lavoro e mi hanno fatto capire cosa voglia dire far ricerca in ambito scientifico. Così, dopo la laurea, ho deciso di continuare il mio percorso con un dottorato di ricerca nel Dipartimento di Ingegneria Industriale di Trento (concluso a giugno) e ora sto proseguendo la ricerca nello stesso laboratorio».

Sei stata premiata per il tuo progetto sui poliesteri furanoati, polimeri bioderivati che rivoluzioneranno il mondo del packaging e del tessile. Puoi spiegarci più nel dettaglio il tuo lavoro?

«I materiali polimerici sono le materie plastiche, oggigiorno tanto denigrate per il loro impatto ambientale: ma è importante rendersi conto che hanno contribuito notevolmente allo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni. Sono dei materiali incredibilmente utili, leggeri, resistenti e versatili (sono a base di plastica i paraurti delle automobili e le sacche biomedicali per il sangue, ma anche gran parte dei componenti di un computer o di un telefono, e perfino le pale eoliche), ma l’uso improprio e il cattivo smaltimento stanno causando gravi danni a livello ambientale. Una delle plastiche più utilizzate e familiari è il PET che, come la maggior parte, è prodotta a partire dal petrolio, mentre sarebbe bello produrle da fonti rinnovabili. L’alternativa più promettente è rappresentata dai poliesteri furanoati, polimeri derivati da fonti naturali, ad esempio dalla fermentazione e disidratazione di biomasse, come il PEF: ha migliori proprietà di barriera all’ossigeno e all’anidride carbonica, quindi se lo si usa per fabbricare bottiglie o imballaggi per alimenti basta una pellicola più sottile per conservare cibi e bevande per lo stesso periodo. Questi poliesteri furanoati non sono ancora stati commercializzati perché non se ne conoscono bene le proprietà fisiche e meccaniche, e qui entra in gioco la mia ricerca, che si propone di studiare in modo più approfondito le proprietà di questi polimeri, e di cercare di migliorarle ulteriormente tramite l’aggiunta di nanocariche (come la nanocellulosa o il grafene) o tramite la miscelazione con altri polimeri»

Come mai hai deciso di partecipare al «For Women in Science»?

«Il bando mi era stato segnalato a novembre dal capo del laboratorio dove stavo svolgendo il dottorato e siccome da qualche mese era stata introdotta la linea di ricerca dei poliesteri furanoati ho pensato che, dato che la borsa di studio sosteneva un progetto di ricerca a scelta delle candidate della durata di 10 mesi, potesse valer la pena provarci: in quel lasso di tempo non si fanno miracoli (dubito che allo scadere della borsa inizierà la produzione in massa di bottiglie in PEF), ma si possono capire un bel po’ di cose su questi materiali e porre delle basi concrete per individuarne i punti di forza e debolezza e progettarne l’industrializzazione».

Sei stata selezionata tra più di 300 candidate: cosa hai provato nel ricevere la notizia della vittoria?

«A fine maggio ho ricevuto una mail da parte del comitato di assegnazione del premio in cui mi chiedevano disponibilità per una video chiamata urgente il pomeriggio stesso. Panico! Ho subito pensato che volessero delucidazioni sul mio progetto, quindi ho passato le due ore successive a prepararmi per rispondere a eventuali domande. Invece mi è stato subito comunicato che ero risultata tra le vincitrici. Naturalmente mi ha fatto molto piacere e ho sentito che il mio lavoro e il mio impegno erano stati riconosciuti e apprezzati da esperti che non mi avevano mai vista prima. Nel comitato di assegnazione del premio ci sono donne e uomini di scienza, persone esperte nel loro settore che lavorano in università o in azienda. Credo abbiano davvero valutato la bontà del mio progetto e del mio curriculum».

Com’è vivere la ricerca in quanto donna e professionista? Quali sono i punti di forza e le debolezze della ricerca in Italia nel tuo settore?

«Il premio è importante proprio perché fa parlare della “questione femminile” nella scienza e nella ricerca. Se prendo l’università degli Studi di Trento, nelle lauree come fisica, matematica e ingegneria tra gli studenti iscritti ai corsi di laurea solo 1 su 4 è donna, e tra i professori ordinari è donna solo 1 su 10. Se estendiamo il discorso a tutte le discipline allora tra gli studenti c’è parità, perché circa il 50 % degli studenti è donna. Ma se consideriamo i professori ordinari, di nuovo le percentuali ci sconvolgono, perché solo circa 3 su 20 sono donne.

Perché tra gli iscritti ai corsi di ingegneria, fisica e matematica la presenza femminile è così esigua? Le donne non sono abbastanza brave per studiare discipline scientifiche? Non si sentono all’altezza? O semplicemente non sono interessate? Secondo me parte del problema risiede nel fatto che già a 6 anni le bambine pensano in media di essere meno intelligenti e meno brave in matematica e scienze dei loro compagni maschi, che locuzioni come “genio” e “molto intelligente” siano meglio associabili a uomini. Gli stereotipi di genere attorno al rapporto tra donne e scienza (o in generale tra donne e professioni di intelletto) sono ancora molto forti nella nostra società, e questo influenza soprattutto le bambine e le ragazze che non si sentono adatte a svolgere professioni come la ricercatrice o la scienziata. Penso che sia fondamentale promuovere tutta una serie di iniziative che stimolino la curiosità delle bambine e delle ragazze per le materie scientifiche, e in tutto questo penso che sia importante che vedano e conoscano donne che hanno avuto successo nella ricerca o nell’industria (parlo di donne come Ilaria Capua, Fabiola Gianotti o Samantha Cristoforetti), che le sentano parlare e le identifichino come role models: se ce l’ha fatta lei, perché io no?

Un’altra domanda è: dove vanno a finire le donne che entrano nel percorso accademico? Se il 50 % degli studenti è donna, come mai alla fine su 20 professori ordinari, solo 3 sono donne? Qui si parla di università di Trento, ma piccola è la differenza se si guardano in generale le università italiane. Per come funziona oggi l’università in Italia dopo la laurea c’è un corso dottorato di 3 anni, e dopo il dottorato inizia un lungo periodo di precariato che può durare anche 8-10 anni, con contratti di sei mesi, un anno o (se va bene) due anni, in cui spesso sono gli stessi ricercatori e ricercatrici che devono procacciarsi i fondi per il loro stipendio e per la loro ricerca, partecipando a bandi nazionali o internazionali. Dato che in media il dottorato viene conseguito tra i 28 e i 32 anni, questa è un’età critica sia per l’affermazione dal punto di vista lavorativo, sia per i progetti personali come la costruzione di una famiglia. In quanto donna ricercatrice, non voglio dover scegliere tra provare a far carriera e provare a costruire una famiglia. Non voglio accontentarmi e dover per forza rinunciare a una delle due cose, se i miei colleghi uomini non si devono accontentare».

Quale consiglio vorresti dare alle ragazze che oggi decidono di intraprendere la loro strada nel mondo della scienza e della ricerca?

«Il mio consiglio, che può sembrare banale, è questo: se vi piace, lanciatevi. Se vi interessa la fisica, la chimica, la matematica, la scienza dei materiali, prendete in considerazione di iscrivervi a un corso universitario STEM. Non pensate di rinunciarvi perché credete che sia troppo difficile, o poco adatto a voi in quanto ragazze, perché molti dei vostri colleghi uomini non si fanno ostacolare da pensieri del genere. Del resto, da piccoli, ai maschi insegnano a essere coraggiosi, a buttarsi, a rialzarsi quando cadono, a non farsi mettere i piedi in testa, mentre alle bambine insegnano ad essere perfette, a non urlare e a non sporcarsi “perché le brave bambine non si comportano così”. Io per fortuna sono sempre stata incoraggiata dai miei genitori, che ringrazio di cuore, a seguire la mia strada e a intraprendere qualsiasi percorso che mi sembrava indicato: ricevevo supporto per qualsiasi attività sportiva, musicale, ricreativa, scolastica, scientifica mi andava di fare, e questo ha senz’altro contributo alla crescita della mia curiosità e ha messo le basi per la mia passione per la ricerca. Non abbiate paura “di essere l’unica ragazza” o “tra le poche ragazze” in un corso di laurea prevalentemente maschile. Pazienza. Per studiare e capire le materie scientifiche non serve essere maschi, ve lo garantisco. In fondo, come ha detto saggiamente Edison, “il genio è 1% ispirazione e 99% traspirazione”, cioè fatica e sudore. Non mi pare che parlasse di percentuali di testosterone.

Vorrei concludere con una citazione di Marie Curie, scienziata rivoluzionaria, unica persona al mondo ad aver vinto due premi Nobel in due discipline diverse. Diceva: “Lo scienziato nel suo laboratorio non è solo un tecnico, è anche un bambino davanti a fenomeni della Natura che lo affascinano come un racconto di fate”. Quindi emozionatevi, lasciatevi stupire, e studiate senza paura quello che più vi interessa. Ringrazio la Fondazione L’Oréal che con il “Premio Per le Donne e la Scienza”, insieme a Unesco, promuove il lavoro delle giovani ricercatrici e permettono di dare spazio sui media a questa tematica così importante».

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