Viky, un’artista bresciana, racconta «andata e ritorno» dall’incubo di una relazione tossica.
La storia dell’artista bresciana Viky
Non ha lasciato lividi evidenti sulla pelle ma segni ben più profondi. Solchi nell’anima, nel cuore, nella mente. Solchi fatti di paura, di timore per la propria incolumità, mascherati da gesti che all’inizio era facile scambiare per un sentirsi curata, amata e al centro dell’attenzione. Raccontiamo la storia di una donna bresciana, scampata ad una storia di violenza e possesso ad opera del compagno.
Viktoria Papp all’anagrafe, «Viky» è una fotografa già membro del gruppo Click di Flero. La sua storia di liberazione è diventata anche una fotografia, scattata e costruita con la modella Daisy Amber, dal titolo «Un amore troppo bello per essere vero», esposta anche durante l’ultima biennale di ottobre. Lui, uomo facoltoso, noto agli ambienti più esclusivi della società locale. Uno stile di vita che ben pochi hanno potuto raggiungere e di cui hanno potuto godere. Lei, Viky, era all’epoca dei fatti una giovane donna, che da sempre ha imparato ben presto a cavarsela da sola, lontano da casa. Forte, combattiva, una persona che non teme di affrontare le prove della vita. Le loro strade si incontrano. Lui la nota. Inizia un corteggiamento, fino a formare una coppia a tutti gli effetti.
Viktoria, com’è stato l’inizio della vostra relazione?
“Lui è stato dolce e premuroso sin da subito. Avevo quasi 25 anni quando è iniziata la nostra relazione, il periodo in cui una ragazza affronta il cambiamento concreto verso l’essere donna a tutti gli effetti. Inizia a guardare al futuro con una consapevolezza diversa . Lui era sempre molto presente, mi riempiva di mille attenzioni, mi faceva sentire amata e coccolata. Anche nella quotidianità, nell’aspetto pratico. Mi prendeva appuntamento in uno degli studi di parrucchieri più quotati della città, nel salone estetico, così come nelle boutique di vestiti, e cose simili. Per me tutto questo non era fondamentale, mi chiedevo come fosse possibile, se fosse possibile. Il suo modo di farmi sentire accolta, mi aveva fatto abbassare la guardia”.
Cosa ti ha fatto mettere in guardia?
“Tutto quello che per molte donne può sembrare idilliaco, in realtà per me non lo era. A molte donne va bene questa vita, nell’agio, nel lusso, nell’assecondare le esigenze del proprio compagno e del proprio marito. Accettato determinate situazioni. Non le giudico, sono semplicemente diverse da me. Ho iniziato a notare che ogni volta che entravo in quel salone di parrucchieri erano loro a scegliere come acconciarmi o tagliarmi i capelli, ogni volta che entravo dall’estetista erano gli operatori a scegliere il trattamento da farmi, ogni volta che andavo nella boutique di vestiti erano le commesse o i commessi a scegliere gli abiti, lo stile, i tacchi per me. Lui passava prima per prendermi gli appuntamenti e diceva loro cosa dovevano fare e pagava il conto”.
Ti aveva dunque tolto la tua vera personalità e identità ?
“Sì, ero Viktoria Papp a ll’anagrafe, ma quella che vedevo riflessa era una donna ben distante da me. Mi diceva che mi voleva perfetta nelle occasioni pubbliche, nelle cene. Che la donna che stava con lui doveva essere una donna che le altre dovevano invidiare. Tutto quello che io ero, indossavo o facevo, doveva essere secondo il suo gusto e per appagare e confermare il suo status sociale. Avevo una mia auto, una piccola utilitaria, che mi ero comprata con il sudore del mio lavoro, ma per lui non era idonea per la sua donna. Mi comprò una Mercedes e quella dovevo usare. Quell’iniziale star bene mascherato da prendersi cura e dalle coccole, iniziò a diventare un limite alla mia libertà e un limite al mio benessere come persona. E da lì sempre di più: ero il suo biglietto da visita”.
Vivevate insieme?
“Anche questo aspetto era stato imposto da lui. Un giorno mi disse che aveva pensato che l’ideale era vivere insieme, condividere le nostre vite e sposarci. Io risposi “Ma quando mi hai chiesto se sono d’accordo e se lo voglio?”. Alla fine optai per tentare una convivenza, magari le cose potevano trovare un equilibrio diverso, lui poteva sentirsi più sicuro della relazione e non vivere sempre nell’ansia del controllo. Prima di fare questo passo così importante mi tutelai, perché il timore che potesse non funzionare c’era da parte mia. Così decisi di nascosto di mantenere attivo l’affitto del mio vecchio appartamento, un minuscolo monolocale ma che consideravo per me casa. La mia famiglia era ed è in Ungheria, mio paese d’origine. In Italia non avevo nessun famigliare da cui potermi rifugiare o farmi aiutare in caso la storia prendesse una brutta piega, non avevo amici su cui fare affidamento. Dai pochi contatti che avevo mi isolò mano a mano durante la nostra frequentazione. Era un manipolatore audace, scoprì solo dopo che la sua era una vera e propria malattia”.
Come andò l’esperienza della convivenza?
“Il presagio che sentivo ebbe poi conferma. Vivere sotto lo stesso tetto non lo portava ad allentare la presa ma ad aver un maggior controllo su di me. In preda alla sua gelosia, al suo possesso nei miei confronti mi controllava in ogni istante e arrivò al punto di chiudermi in casa a chiave senza possibilità di uscire, né di poter contattare qualcuno per chiedere aiuto. Dovevo aspettare solo il suo rientro a casa. Ero disperata. Urlavo ma nel palazzo nessuno sentiva, o più semplicemente facevano finta di non sentire, chi si sarebbe esposto contro un uomo facoltoso. Fino a quando un giorno esausta, tentai l’unica cosa che potesse farmi notare senza mettere a repentaglio la mia incolumità. Aprii l’acqua del lavandino della cucina di quello del bagno, della vasca, di ogni dove. Nel giro di poco l’acqua a caduta raggiunse gli altri piani del palazzo sottostanti al nostro appartamento. Invase i vani comuni. E arrivarono di fretta e furia a bussarmi alla porta per chiedermi cosa stesse succedendo. Urlai loro che ero rinchiusa, di chiamare i soccorsi per ovviare al problema che avevo creato”.
Che successe quando arrivarono i soccorsi?
“Appena i Vigili del Fuoco sfondarono la porta scappai, così com’ero. Ritornai al mio monolocale prima che lui, avvisato dai condomini del danno a casa, potesse rientrare e bloccarmi di nuovo”.
Eri libera ma ne seguì un momento di grande difficoltà, giusto?
“Sì. Avevo riacquistato la mia libertà ma ero così arrabbiata con me stessa che non riuscivo più a fare nulla. Semplicemente tiravo a campare, gettando via giornate intere, vivendo in tuta o in pigiama dentro il mio appartamento in totale apatia. Mangiavo quando riuscivo a motivarmi al punto di prendere la macchina e andare al Mc Donald’s a comprarmi dei nuggets. Non avevo voglia di curarmi, di curare la casa. Ero di nuovo prigioniera, non di lui, ma della depressione. Toccai ben oltre il fondo ma mi servì per rialzarmi e capire che ancora una volta eravamo io e me stessa. Quel periodo mi servì anche per decidere di non voler compagni o mariti, di non voler una famiglia, di non voler avere alcuno interesse verso altre persone”.
E lui?
“Lui mi cercò più volte. Io scelsi di non denunciarlo, la priorità in quel momento era avere forza a sufficienza per me stessa e salvare me stessa. Dopo circa sei mesi dalla nostra rottura, capii che dovevo chiudere il cerchio e accettai di incontrarlo e dire lui tutto quello che pensavo. Lui optò per un invito in una zona appartata, io posi le mie condizioni: un locale pieno di gente. Avevo paura volesse uccidermi. Mi presentai all’appuntamento con la sicurezza di non ricaderci più, volevo annientarlo con ciò che avevo da dire e soprattutto mi presentai nel modo in cui lui non avrebbe tollerato vedermi: in tuta. Dovevo essere del tutto non attraente o affascinante, per non destare in lui strane idee. Parlammo parecchio, si scusò e lo trovai molto sincero, consapevole e dispiaciuto per quanto mi aveva fatto. La sua giustificazione fu che era “troppo innamorato” e che aveva capito l’errore. Me ne andai chiedendo lui di non più farsi vedere ne sentire”.
E tu?
“Io fui molto sollevata di essere riuscita a dire tutto ciò che pensavo di lui, minai tutte le sue sicurezze apparenti, mi resi conto di aver messo a segno il colpo. In quei sei mesi di depressione, in cui dovetti cavarmela di nuovo da sola, rinchiusa in casa, imparai molto”.
Cos’è dunque più importante una vita agiata e facoltosa o la libertà di una persona di poter essere sé stessa, avere un suo pensiero, una sua libertà d’agire, di vivere, di esprimersi?
“Io credo la seconda opzione. Alla fine, ti sei però sposata. Dopo qualche anno in un locale mentre lavoravo, un uomo mi si avvicinò e mi chiamò per nome. Io non mi ricordavo di lui. Era un ragazzo conosciuto tempo prima in un viaggio in Grecia, ci si era conosciuti in mezzo ad altre persone, ma lui si ricordò di me. Mi disse se mi andava di vederci qualche volta. Dissi lui che saremmo stati solo amici. Durante le uscite mi resi conto che da parte mia in lui vedevo qualcosa in più che un rapporto di amicizia, dopo un pò di tempo glielo dissi e ci mettemmo insieme. Stavamo davvero bene, ma lui rispettava forse troppo le mie scelte precedenti e non faceva il passo che entrambi avremmo voluto, così glielo chiesi io: Vuoi sposarmi? Lui rispose “Sì ”. Siamo davvero felici e ci amiamo davvero molto”.
Hai scelto di raccontare la tua storia attraverso una fotografia, come mai?
“Ho questa passione. E dopo diverse esposizioni ho capito che era giunto il momento di dedicare uno spazio a quanto ho vissuto, facendolo con consapevolezza. Così ho strutturato il tutto in questa fotografia”.
La tua arte porta a sdoganare l’argomento della violenza. Si potrebbe fare altro ?
“Certo che sì. Introdurre l’educazione ai sentimenti, belli e brutti, all’interno delle scuole. Senza genitori presenti, ma alunni e alunne con esperti, in un ambiente sicuro per potersi esprimere, affrontare confronti, imparare. Non si deve parlare solo di amore, ma anche di odio. Entrambi vanno contestualizzati, conosciuti. Quando ero in Ungheria durante il mio percorso scolastico ho affrontato con esperti e psicologi l’argomen – to. Non sempre le famiglie sono in grado di affrontare l’ar – gomento, il sistema scolastico dovrebbe includere questa importante formazione nell’ambito emotivo, nell’am – bito dell’educazione alle sessualità, nell’ambito del rispetto dell’essere umano”