Uscire dal tunnel della droga è possibile, la storia di Masina
Mentre in televisione, sempre più programmi fanno chiarezza sul mondo della droga e di come sia sempre più facile reperirla anche attraverso il web, dall’altra parte c’è il racconto di chi da quel mondo è riuscito a fuggire. Lui è Emanuele Masina e la sua storia ha molto da insegnare, forse anche più di un programma televisivo. Emanuele non è di Castel Goffredo (bensì di Carpenedolo), ma ha presentato il suo primo libro - edito indipendentemente - «800 km per ritrovarmi» in Galleria Bazzani, spazio che sempre più viene utilizzato per sviluppare una coscienza culturale di comunità. Il racconto di Emanuele, è la storia della sua vita, prima del 4 agosto 2013. Una vita che lui stesso definisce abitudinaria, ripetitiva, animata da una falsa amica, la cocaina. E’ durante le vacanze assieme ai genitori che qualcuno o qualcosa gli fa pensare di intraprendere il Cammino di Santiago, una tra le esperienze di pellegrinaggio più note. Dopo essersi documentato ed informato accuratamente su questo viaggio anticonvenzionale, Emanuele «Maso» parte senza fare più ritorno. Tornerà, ma nulla sarà più come prima. Emanuele è vivo, ma «Maso», non più. «E’ a Finister - sottolinea Emanuele - che ho lasciato il mio alter ego, al punto finale di questo mio percorso». Senza alcun tipo di preparazione fisica, Emanuele ha percorso tutto il cammino, partendo da Roncisvalle, in 29 giorni: tempistiche sorprendenti per chi non è veterano di pellegrinaggi o di cammini lunghi ed estenuanti. Questa esperienza ha permesso ad Emanuele di prendere in mano le redini della propria vita e dare una svolta radicale alla sua esistenza. Non ha senso aggiungere dettagli a questa testimonianza, perché per conoscere il percorso e il risultato di un giovane che ha vinto la sua battaglia sulla droga, sia necessario leggere il suo libro, sentire le sue parole, interpretare le sue immagini. Ciò che si percepisce dalle parole di Emanuele è un passato vissuto appieno: probabilmente non è stato vissuto nel migliore dei modi, ma a chiunque può capitare di essere coinvolto in situazioni incontrollabili, che possono sfuggire di mano e condurre in un tunnel senza uscita. Emanuele questa uscita l’ha trovata e con immenso orgoglio ha deciso di raccontarla, affinchè possa essere d’aiuto ad altri.
Non è ancora terminato il cammino del giovane carpenedolese Emanuele Masina, classe ‘84, la cui vita è stata completamente stravolta dal suo viaggio a Santiago e dalla stesura di «800km per ritrovarmi». Proprio due settimane fa il libro è stato pubblicato dall’editore «Il messaggero di Padova» ed è reperibile in tutte le librerie d’Italia. La copertina non è l’unica parte completamente rinnovata, dal momento che l’autore ha aggiunto un nuovo passaggio ancora più marcatamente rivolto a chi si trova nel «periodo buio» che ha caratterizzato ben 10 anni della sua giovinezza.
Parteciperai alla tredicesima edizione del «Festival biblico», un appuntamento cui il tuo editore ha particolarmente puntato anche perchè tema di quest’anno è proprio il viaggio, nelle sue numerose declinazioni reali e metaforiche. Una bella occasione di visibilità.
«Sì, il libro sarebbe dovuto uscire ad ottobre in realtà, ma dal momento che ben si inseriva nell’ambito del Festival Biblico di Vicenza l’editore ha deciso di anticipare i tempi. Io sarò intervistato da padre Guidalberto Bormolini, di Desenzano, da sempre molto vicino ai giovani. Sarà una bella avventura partecipare ad un evento simile che ogni anno raccoglie circa 35mila visitatori»
Per esigenze editoriali ti è stata data la possibilità di aggiungere un capitolo al tuo scritto originale, che avevi già presentato qui nella bassa con alcuni incontri faccia a faccia con i ragazzi. Che valore aggiunto dà quest’ultima rifinitura?
«Secondo me indaga meglio lo stato d’animo di chi vive in quel tipo di mondo. Ho voluto sottolineare ancora di più il “chi ero”, proprio per dare un messaggio di speranza a tutti quelli che si rivedono nella mia situazione. Per far capire che una via d’uscita è sempre possibile se c’è la volontà»
Hai aggiunto parte del testo di una canzone dei «Ramstein», il gruppo metal che ti ha accompagnato per tutta la stesura del libro e in cui ti rivedi ancora oggi.
«L’ho fatto per il senso che ha quella particolare canzone e per far vedere che il metal è ancora una parte di me. Mi viene da sorridere quando la gente dubita del mio cambiamento solo perchè ascolto un determinato tipo di musica. Un mio obiettivo con questo libro era proprio di non denunciare la musica metal, anzi mi sono fatto portavoce di alcuni loro significati. L’album “Reise Reise” ad esempio tratta della lotta tra un marinaio e un grande pesce in una rete. Sono metafore della vita che propongono una strada alternativa».
Da qualche mese hai iniziato un’esperienza con i detenuti del carcere di Reggio Emilia, cosa ti stanno dando e cosa stai dando invece tu a loro?
«Tante volte mi fa capire come mi vedevano gli altri, perchè pur non essendo mai stato in carcere, tutti sapevano che facevo uso di sostanze e mi trattavano quasi come un criminale. A loro mi piace pensare di dare una piccola luce di speranza. Quasi nessun carcere italiano istruisce a non delinquere una volta terminato il periodo di reclusione, facendo in modo che la “punizione” inflitta non sia mai davvero efficace. Un ragazzo finito dentro per droga, anche una volta uscito non potrà mai avere una vita normale perchè quella è l’unica strada che conosce»
Li hai praticamente adottati e per loro hai scritto alcuni racconti brevi, pensi che ci sia bisogno di più figure come la tua nei carceri italiani?
«Il carcere non dà loro una possibilità di rinascita, anche se io preferisco il termine ricostruzione, e quindi io vorrei essere una voce fuori dal coro che invece prende a cuore la loro causa e gli mostra una strada in più da poter seguire per dare una svolta alla propria vita. Non sarà facile ma credo che ce ne sia davvero bisogno. Poi ovviamente non si può arrivare a tutti, ma io appoggio una bottiglia d’acqua, chi ha sete può servirsene. Tanti l’accettano, forse ne sentivano il bisogno e per questo sto cercando di mantenere il contatto andando da loro all’incirca una volta ogni due mesi».
Hai già un altro progetto in cantiere, un secondo libro molto diverso dal primo che avevi pensato addirittura di pubblicare con uno pseudonimo. Puo dirci il titolo di questo libro?
«L’ho intitolato “La fabbrica di sangue” e vuole essere sia un thriller che una denuncia sulla vita nell’ambiente lavorativo. Dopo aver lavorato 14 anni in una fabbrica questo è la naturale conseguenza della situazione disumana che avevo trovato nella mia prima esperienza lavorativa. Pensavo di pubblicarlo con lo pseudonimo di “Nevermore” perchè credevo che la gente non avrebbe capito il fatto che in un libro esalto la vita mentre nell’altro valorizzo la vendetta e la violenza. Ma poi ho desistito perché non toglie assolutamente valore a nessuno dei due scritti. Ho voluto dare un’impronta con dei messaggi precisi, che vanno al di là del significato più superficiale»
Alessia Gessa