Sparò e uccise un ladro: ora gli chiedono 200mila euro

Sparò e uccise un ladro: ora gli chiedono 200mila euro
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Sono passati quasi undici anni dalla notte in cui Michelangelo Rizzi sparò a un ladro che cercava di entrare in casa sua. Michelangelo è stato assolto in terzo grado. Nel 2016, a metà dicembre, ricevette una richiesta di risarcimento danni di 200mila euro da parte della sorella del defunto.

Cos’è successo il 27 gennaio 2006?

«Era circa l'una e mezza della notte. Ero a letto con mia moglie da circa mezz’ora, quando sentii Ira, il mio doberman, ringhiare e abbaiare contro la finestra. Uscii e vidi il busto e la testa di una persona che stava forzando la finestra della taverna. Gli gridai di andarsene e sentii delle persone ridere. Forse erano ubriachi e drogati. Andai a prendere le pistole, ne armai una e la misi in mano a mia moglie che stava tremando e piangendo dalla paura. Armai la mia e appena arrivato sotto la finestra li invitai ad andarsene, minacciandoli che avrei sparato. Non si fermarono, forzarono la finestra e sparai tre colpi.  Poi aprii la porta e sparai ancora, ma non ricordo molto, ero una macchina in quel momento. Gridai a mia moglie di chiamare i carabinieri. Passammo la notte in caserma e da qui iniziò l'odissea».

Com’è finita la vicenda?

«Il giudizio è passato dalla Cassazione con l'unica pena accessoria di risarcimento di 8mila euro, poi hanno proceduto con una causa civile richiedendo 197.505 euro. La mia causa in terzo grado si è conclusa da anni e a dicembre scorso ci è stato notificato dalla famiglia del morto una richiesta di risarcimento di quasi 200mila euro. Cinque anni fa vendetti la casa a una famiglia che il 14 dicembre ha ricevuto la notifica con la richiesta. La perizia commissionata dal Pubblico ministero provò un ragionevole dubbio sulla base del quale io dovrei essere stato assolto in primo grado. La perizia di chi è lì per rappresentare lo Stato contro di me dice che il morto può essere stato colpito mentre entrava dalla finestra oppure mentre scavalcava per scappare. Il delinquente che uccisi si chiamava Ditran Osmani di origini albanesi. L’uomo aveva nove identità diverse. Fu arrestato nove volte e rilasciato sempre. Oltre al nome cambiavano i reati. Ogni volta aveva un nuovo permesso di soggiorno falso. I carabinieri trovarono una pistola dopo che si sciolse la neve. Era di Osmani e addosso aveva 50mila euro in contanti che il giudice riconsegnò alla famiglia».

Perché l’hanno condannata allora?

«Perché io non ho dimostrato pentimento. No, non mi sono pentito e non mi pentirò mai di aver fatto il mio dovere. Mia moglie tremava di paura.  A costo di passare la mia vita in carcere rifarei quello che ho fatto. Sono un alpino paracadutista, sono addestrato bene. Loro erano in tre ed erano armati. Il mio sangue che scorre nelle vene mi è stato dato in prestito, ma è della mia famiglia e fino all’ultima goccia verrà versato per proteggerla».

Che lavoro faceva all’epoca? E come è cambiata la sua vita?

«Vendevo macchine agricole, mio padre e mio fratello fanno ancora quello. Io avevo una ditta mia, era una società fondata con mia moglie. Venne sacrificato tutto sul banco degli imputati. Già è dura lavorare senza certi problemi e spese legali da affrontare, figuriamoci in quelle condizioni. Sono stati momenti molto duri, tre anni di torture. La mia vita è cambiata, ma non muoio di fame, perché mi rimbocco le maniche e vado a lavorare».

Ora cosa fa? E’ ancora sposato?

«Faccio il cuoco, do una mano a un amico in un ristorante di Bayahibe. In estate lavoro in Italia in un locale sul lago di Garda e in inverno vengo all’estero. Si sta molto bene qui. Con mia moglie ci siamo separati, il colpo è stato troppo forte per lei. Ma ci aiutiamo, ci vogliamo bene. Siamo passati attraverso la bocca di un vulcano attivo insieme e ne siamo usciti vivi. Nessuno è riuscito a farci veramente del male,  non saremo di certo noi a farcene».

Quando ha ricevuto la lettera con la richiesta di risarcimento danni, cos’ha pensato?

«Se mi costituisco in giudizio lo faccio per lui. Non possono farmi niente, ormai non ho più nulla. Me lo hanno tolto».

Si sente di aggiungere qualcosa al suo racconto?

«C’è dell’altro, un incipit della storia. Davanti al mio negozio a Castelnuovo c’era una prostituta minorenne di origini albanesi . La ragazza buttava fazzoletti e altre cose a terra e un giorno le sono andato vicino e le ho dato un sacchetto per mettere la sua spazzatura. Mi sarei poi preoccupato io di raccoglierlo tutte le sere. Nei giorni seguenti, la ragazza cominciò a entrare in negozio. Era gennaio, faceva veramente freddo e lei era vestita pochissimo, era mezza nuda. Mi ricordo che era congelata e io le preparavo il brulé. Lo beveva di gusto anche se diceva che era peccato perché è mussulmana. Poi diventammo amici e mi raccontò come era finita in strada. I genitori, in Albania, avevano comprato delle mucche da latte facendosi prestare da alcuni conoscenti. Purtroppo non furono in grado di pagare, cosí gli strozzini presero la ragazza la violentarono e la portarono in Italia. Si spostarono in vari luoghi, partirono dalla Campania e arrivarono in Veneto. Lei non potè scappare, perché le avrebbero ucciso i genitori. Ma mesi una mano sul cuore. Deciso di organizzare la fuga sua e dei genitori. Li portai in un'azienda agricola di un amico e cliente, in campagna. In un posto lontano dove non potessero trovarli. Dopo qualche giorno tre individui mi fecero visita in negozio minacciandomi e chiedendo dove fosse la loro merce. La chiamarono “merce”, persone senza rispetto per gli altri esseri umani. Il primo giorno dissi che non sapevo di cosa parlassero, poi li ignorai per svariate volte. Una notte subii un furto in negozio. Portarono via parecchia merce e  lasciarono un'accetta conficcata in un banco come segno di avvertimento. Erano furbi, venivano sempre quando ero solo sul tardi quando i miei dipendenti non c'erano. La sera del 26 gennaio del 2006, erano le 19.30 circa, stava nevicando, avevo appena spento le luci e mi capitarono dentro. Avevo in mano un'accetta e la brandii contro di loro che mi dissero che quella notte non dovevo dormire tranquillo. Misi subito Ira in casa e cucinai per me e Cristina. Guardai un po’ di televisione e poi andai a letto. Dopo mezz’ora accadde l’impensabile».

Non pensa di essersi rovinato la vita?

«Non lo penso assolutamente. Quando vado a trovare la ragazza che ora si è sposata con il figlio del mio cliente ed è diventata mamma, mi si attacca al collo e mi bacia. Niente può darmi una soddisfazione migliore di quella. Non mi pento, non ho rimpianti, ora lei è al sicuro. Nessuno doveva sapere di lei. Racconto questa storia oggi, per la prima volta, ho avuto da poco il permesso da lei di parlarne. Sta bene è felice e lo sono anche io. Io sono qui non sono in una cassa di legno, la mia vita è bellissima. Sono stato assolto. A luglio mi presenterò in aula con il sorriso. Mi disgustano più dei delinquenti che sono venuti a casa mia».


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