giornata della memoria

Rifiutò la mano tesa dei nazisti: medaglia d'onore per Domenico Sigalini

A riportare alla luce la storia del covatese è stata la nipote Chiara Lizza, che ha spulciato documenti e archivi per ricostruire gli anni della prigionia nei campi di lavoro

Rifiutò la mano tesa dei nazisti: medaglia d'onore per Domenico Sigalini
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di Emma Crescenti

Per anni è rimasta sepolta sotto la polvere del tempo, nascosta, non detta, forse per dimenticare il dolore vissuto nei campi di prigionia. Ma ogni storia ha il suo valore e quella di Domenico Sigalini parla di un uomo onesto, di un soldato integerrimo, che ha preferito soffrire piuttosto che tradire la propria Patria. Una storia impressa non solo nei documenti, ma anche nella Medaglia d’Onore conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai cittadini italiani, militari e civili, vittime delle deportazioni e degli internamenti nel corso del secondo conflitto mondiale.

Rifiutò la mano tesa dei nazisti: medaglia d'onore per Domenico Sigalini

Sigalini è uno dei 12 cittadini (oltre a Giovanni Massimo Albarelli, Luigi Comenicini, Arturo Frizza, Giulio Galloncelli, Lorenzo Gosio, Giovanni Guerini, Pietro Pe, Cesare Piloni, Gaetano Riccio, Achille Serpelloni e Lorenzo Zeziola) a cui sabato, in occasione della Giornata della Memoria, è stato riservato il riconoscimento, consegnato dal viceprefetto Anna Chiti Batelli alla figlia Silvana, al genero Lino Lizza e alla nipote Chiara, che con pazienza e tanto lavoro di ricerca ha riportato alla luce la sua storia. «Il nonno non ha mai voluto parlare della guerra, non raccontava nulla e quando provavi a chiedere lasciava cadere il discorso: era una pagina troppo dolorosa, una ferita ancora aperto», ha raccontato Chiara che per ricostruire la vicenda del covatese ha spulciato archivi e documenti storici, social e siti internet, mettendo insieme (quasi) tutti i pezzi di un puzzle sì doloroso, ma necessari.

La guerra e la prigionia

Nato a Castelcovati nel giugno 1917, Domenico Sigalini era stato chiamato alle armi nel maggio del ‘38, aggregato per l’addestramento al 4 reggimento Genio di Bolzano: la carriera militare (caporale nel ‘40, caporal maggiore nel ‘41, sergente nel ‘41) era andata di pari passo con una guerra sanguinosa. L’8 settembre del 1943, quando fu proclamato l’Armistizio, fu catturato dai tedeschi in Francia: combattere contro l’Italia con le milizie nazi-fasciste o i lavori forzati erano le opzioni, ma la scelta giusta da fare è stata una sola. Per due anni, per i suoi carcerieri, non fu un uomo con un nome e una dignità, ma un numero: 49809, nero su bianco nei documenti che riportano date e notizie della prigionia. La sofferenza, invece, emerge dalle immagini e dai racconti riportati dai testimoni: ma trapela anche dal silenzio di chi, come Domenico, non ha mai detto nulla. Internato nello Stalag XII, in Germania, dal 15 novembre del ‘43 al 31 gennaio del 45 fu costretto a lavorare per l’azienda Giulini Chemie GMBh a Ludwighshafen.

Al contrario di molti prigionieri militari (furono quasi 600mila) lui dopo la Liberazione era riuscito a tornare a casa, ha ricostruire una vita accanto alla moglie Amabile Fieni, sposata nel ‘47 dopo un fidanzamento lampo, e ai quattro figli nati dal matrimonio, Anna, Silvana, Giuseppe e Chiara, portandosi a casa anche il papà e il fratello (anche loro Giuseppe).

La cerimonia

Muratore di professione, è mancato nel 1979. Oggi la sua storia è un esempio di coraggio, di attaccamento ai valori su cui è stata costruita l’Italia, premiata anche dai vertici della Repubblica. «Dopo aver raccolto tutto il materiale ho inviato la richiesta, che è stata accolta», ha continuato Chiara, che ora continua il suo lavoro di ricerca, tra una lettera dal fronte e l’altra, cercando documenti «non sempre facili da recuperare», a stretto contatto con le famiglie degli altri internati per riportare alla luce un capitolo di storia che sta perdendo i testimoni diretti. Quanto alla cerimonia, condivisa assieme al sindaco di Castelcovati Fabiana Valli «è stato un momento davvero emozionante - ha concluso - Penso che sia un giusto riconoscimento per quello che il nonno e tanti altri hanno passato durante la prigionia, solo per essere rimasti fedeli ai loro principi».

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