Quel deposito Ex Fimo ormai ridotto a discarica
La Ex Fimo torna ad essere una discarica a cielo aperto. Un capannone di via Commercio, nella zona industriale di Ponte San Marco, a poche centinaia di metri dalla Gedit. La segnalazione giunta qualche mese fa grazie ad alcuni cittadini aveva mobilitato immediatamente le guardie ecologiche volontarie, operative sul territorio.
Oltre alle decine di campane della raccolta differenziata, depositate nel sito in attesa di essere rivendute, qualche incivile aveva ben pensato di trasformarla in una discarica a cielo aperto. L'Amministrazione si era così mossa per ripulire quanto abbandonato dai maleducati che avevano lasciato passeggini, sacchi, parti di mobili e altro che andava conferito nei luoghi deputati.
Per evitare ulteriori abbandoni illeciti la zona era stata sottoposta al controllo da parte della videosorveglianza ma a nulla è servito. Nel giro di pochi mesi l'area è tornata ad essere una distesa di rifiuti. Il fabbricato in questione sito in via Commercio numero 8, al foglio 3 e particella 627, risulta intestato al Comune di Calcinato. L’area, rilevata dall’Amministrazione Comunale dopo il fallimento della Fimo e parzialmente bonificata a spese pubbliche è inserita nel piano delle alienazioni. Una volta effettuata la stima l’Amministrazione comunale si era attivata per mettere in atto la procedura di tentativo di vendita.
Ma per ora nessuno ancora si è mosso, le aste sono andate a vuoto e l'area è ancora di proprietà del Comune. Resta l’opzione della trattativa privata, cioè la proposta di acquisto da parte di un investitore. Un edificio che anni fa fu protagonista di una lunga e ancora incompleta storia di bonifica. Prima infatti che il Comune ne rilevasse l'area, il capannone era stato trasformato in un deposito di rifiuti industriali stoccati abusivamente da ignoti. «L'episodio risale a più di 20 anni fa, quando furono rinvenute all'interno dei locali, pericolose scorie di alluminio, depositate da ignoti, l'affittuario che poi è fallito, spiega il consigliere Libero Lorenzoni non ne sapeva nulla, tanto meno il proprietario».