Posti fantastici e dove trovarli. Gerusalemme, senza risposte

Quando dissi che partivo per Gerusalemme i miei amici mi regalarono tre guide: Touring, Lonely Planet e Routard. La storica, la pratica e la narrativa. «È un posto complicato, non ti basteranno», mi avvisarono. Quando partii non avevo in mente solo il Monte degli Ulivi e il Santo Sepolcro. Pensavo a quell’esame di geopolitica che avevo dato da poco, al conflitto israelo-palestinese che mi ero sforzata di capire attraverso i reportage dell’Internazionale, gli approfondimenti di Limes, nei testi di storia contemporanea. Speravo di tornare con delle risposte.
Arrivata a a Gerusalemme mi colpì la folla: decine e decine di arabi, cristiani e ebrei che si accalcavano per le strade strette della città vecchia, urlando per farsi servire nei negozi di dolci o di fronte ai banchi del suq. Ci arrivai al tramonto di un settembre di Ramadan, lo zaino appiccicato alle spalle in quei trentacinque gradi atroci, che non avrei imparato a sopportare nemmeno col foulard che mi mettevo per ripararmi dal sole. Dormivo in un convento di Francescani vicino al Santo Sepolcro. Mi svegliavo alle 5 per visitare la città senza gli sciami di turisti.
Gerusalemme è un quadrato circondato da mura e diviso in quattro quartieri: ebreo, cristiano, armeno, arabo. Su tutti veglia il Monte del Tempio e la spianata delle Moschee, luogo sacro per i musulmani e i cristiani, dove si trovano la Cupola della Roccia e la Moschea di Al Aqsa. All’interno di questi luoghi di culto solo i musulmani posso entrare. In alto rispetto alla città si trova il Monte degli Ulivi e la Basilica del Getsemani, con i suoi soffitti blu con le bandiere delle nazioni del mondo.
Nel quartiere arabo si entra dalla Porta di Damasco, superando i banchi di spezie e i venditori di succhi di melograno e carne di tartaruga. Camminando si sentono i muezzin che chiamano i fedeli alla preghiera dai minareti quasi nascosti da decine di bancarelle. Vendono vestiti, tessuti, generi per la casa, souvenir. Ai tetti in legno sono appesi fili di luci che si accendono al tramonto.
Del quartiere cristiano resta in mente il Santo Sepolcro, la basilica costruita sui luoghi simbolo della fede cristiana, da sempre oggetto di liti e contese. Sono sei le zone in cui la chiesa è divisa, gestita da altrettante confessioni: armena, greca ortodossa, latino cattolica, siriana, copta ed etiope. All’interno della basilica si trova la roccia dove fu piantata la croce di Gesù, il luogo dove fu deposto e il sepolcro che ne accolse il corpo.
Simbolo del quartiere ebraico è, invece, il Muro del Pianto, luogo santo in quanto vestigia del Tempio di Gerusalemme distrutto nel 70 dopo Cristo. Gli ebrei ci arrivano per le tre preghiere giornaliere, con un copricapo, lo scialle di preghiera e i filatteri, gli astucci di cuoio con i brani della Torah. I sefarditi, gli ebrei osservanti, si lasciano riconoscere con i loro abiti neri, i lunghi riccioli e i vistosi cappelli di pelliccia, larghi e alti.
Gerusalemme ti entra dentro compressa nel fumo di narghilè, mentre lasci cadere i ricordi della giornata su un piatto di hummus prima di tornare in ostello, prima che faccia troppo tardi – o troppo buio – per le strade del quartiere cristiano. Gerusalemme ti cambia, ti riversa addosso mille domande che restano quasi sempre senza risposta, accompagnate dalla rabbia per un Dio che non c’è, che non si fa trovare dalle folle di fedeli che lo chiamano dai quattro angoli della città. Lo invocano in tutte le lingue, il Dio delle consolazioni. Lo chiamano anche fuori, di fronte al muro che porta a Betlemme: dieci chilometri di separazione tra lo stato israeliano e quello palestinese. Lo chiamano anche i bambini, per strada con i loro fucili giocattolo.