Testimonianza

“Nessuno può salvarti se tu non lo vuoi”, intervista a un detenuto prossimo alla libertà

A 45 anni ha ripreso in mano la sua vita, rialzandosi da un tunnel scandito da tossicodipendenza, rapine, violenza e autolesionismo

“Nessuno può salvarti se tu non lo vuoi”, intervista a un detenuto prossimo alla libertà

Un’infanzia difficile, segnata dagli abusi e dal bullismo. Una rabbia che cova, cresce, dilaga. E, poi, la dipendenza dalla droga, la “fame” di soldi facili, le rapine, la violenza, l’autolesionismo, l’arresto, il carcere.  Si dice che quando si tocca il fondo si può solo risalire, ma non è sempre così. C’è chi nel tunnel ci resta, impantanato, intrappolato. Lui, però, c’è l’ha fatta. Tra pochi mesi finalmente sarà libero, avrà pagato interamente il suo conto alla giustizia. Si è disintossicato, ha affrontato un percorso di recupero durissimo, ha trovato un lavoro e, all’età di 45 anni, è pronto finalmente a riprendere in mano la sua vita, a ricominciare da capo.

“Nessuno può salvarti se tu non lo vuoi”, intervista a un detenuto prossimo alla libertà

Ci siamo incontrati in un bar nelle due ore di permesso (è ancora ai domiciliari). Con coraggio ed eccezionale forza di volontà, ha deciso di raccontare la sua storia, dall’inizio, senza omettere nulla. E lo ha fatto nella convinzione e nella speranza che possa servire a qualcuno che, da quel fondo, non si è ancora rialzato.

Hai avuto un’infanzia difficile: te la senti di parlarne?
Sono stato un figlio senza un padre, nel senso che lui non era presente, se ne è andato quando ero piccolo. Sono entrato in collegio e sono stato vittima di bullismo. Poi c’è stata una possibilità di riavvicinamento con mio papà, potevo andare da lui in estate, anche se si era rifatto una vita, una nuova famiglia. Io desideravo trascorrere del tempo con lui, sebbene questo significasse subire violenze dalla “matrigna” e abusi sessuali dalla mia “sorellastra”. A mia mamma e a mia sorella, però, non ho mai detto nulla: avevo paura che non mi mandassero più da mio padre. Dentro avevo tanta rabbia, ma nonostante ciò la mia adolescenza è stata normale: facevo sport, soprattutto calcio, andavo in moto. Ero un ragazzo come tanti altri.
Quando e come sono cambiate le cose?
Intorno ai vent’anni. La rabbia è esplosa e mi ha diviso da tutti quelli che mi volevano bene. Un amico mi ha fatto provare la droga e mi è piaciuta fin da subito. Ho iniziato a spacciare, ho cambiato compagnie e ambienti. Lo spaccio mi ha dato i soldi che non avevo mai avuto, le ragazze, era tutto relativamente facile. A un certo punto ho perfino deciso di smettere di lavorare (lavoravo nell’edilizia) per dedicarmi solo ad attività illegali. La mia famiglia forse aveva capito qualcosa, ma non voleva vedere. Nessuno, comunque, avrebbe potuto aiutarmi in quel momento, nessuno.
Sembrava tutto bello, ma era l’inizio di un incubo…
Per dieci anni sono andato avanti a spacciare e non sono mai stato arrestato. Mi sono fermato perché non riuscivo più a venderla: era di più quella che consumavo. Per un po’ ho provato a vivere alla giornata, cedendo piccole quantità. Sono entrato nel giro del crack e ho iniziato a usarlo per due anni, finché sono stato in fin di vita. Mi hanno ricoverato all’ospedale Sacco di Milano, e li ho deciso di smettere con il crack, ma non di disintossicarmi. Ho fatto un “salto di qualità”: sono entrato in una banda di albanesi e ho dato il peggio di me, non avevo più paura di niente, mi sentivo protetto. Sembrava tutto rose e fiori, ma poi ho capito che non potevo più uscirne. Nel 2015, ho commesso un reato grave, una rapina, ma ci hanno preso: il processo è durato quasi cinque anni e alla fine sono stato condannato.
Un verdetto pesante, arrivato nel momento per te più sbagliato, proprio quando stavi provando a cambiare vita…
Sì, avevo trovato un lavoro normale, una fidanzata (dovevamo sposarci), un hobby sportivo. Ma ho perso tutto. Sono entrato in carcere e ho chiesto aiuto. Mi sono iscritto al servizio Dipendenze e ho intrapreso un percorso difficile e faticoso. Dopo circa 18 mesi sono stato accolto nella comunità terapeutica di Manerbio, dove ero già stato, e questo è stato un passaggio fondamentale. Ho trascorso lì 33 mesi ai domiciliari terapeutici, senza permessi fino al 25esimo mese, quando il magistrato di sorveglianza ha accolto la mia richiesta di poter andare a trovare mia mamma, che in carcere avevo visto solo due volte (non volevo che ci venisse). Per me era fondamentale riabbracciare la mia famiglia per ripartire, ne avevo bisogno, ero stanco. Man mano mi sono stati dati altri permessi e in particolare la possibilità di allenare una squadra di calcio all’Academy Virtus Manerbio. All’inizio ero in preda all’ansia, avevo paura di essere giudicato, quelli come me portano una specie di marchio addosso. E il fatto stesso di avere ricevuto fiducia mi spaventava: sentivo che era una grande occasione e non volevo sprecarla. Mi sono reinserito, pian piano, ho iniziato anche un tirocinio lavorativo tramite la scuola IAL di Brescia in un’azienda, finché ho trovato lavoro presso la Coop 81, che mi ha dato fiducia e che ringrazio immensamente.
Cosa ti ha insegnato tutto questo?
Ho imparato che se vuoi fare una cosa, devi farlo per te stesso, e non perché te lo dicono gli altri. L’impulso deve venire da te, le persone che hai vicino, anche se mosse dalle migliori intenzioni, non possono aiutarti se tu per primo non vuoi. Mi ha insegnato che è importante affidarsi a dei professionisti e fidarsi. Bisogna chiedere aiuto, recuperare il dialogo con la famiglia, anche se costa fatica. Ma devi anche dimenticare il passato, altrimenti non riesci a cambiare. Io non mi sono mai lamentato della pena altissima che mi è stata data (otto anni in primo grado, ndr), ho pagato il prezzo che avevo con la giustizia e ora sono in pace. So che ho buttato via metà della mia vita tra delinquenza e tossicodipendenza, ma il conto da pagare prima o poi arriva. A chi si trova nella situazione in cui ero io dico: chiedete aiuto subito, perché per precipitare basta un attimo.
Ci sono stati momenti in cui ti sei arreso?
Ho tentato due volte il suicidio perché non vedevo una via d’uscita. Tutte e due le volte sono stato fortunato perché mi hanno salvato.
Ti senti di poter dire: “Ce l’ho fatta?”
Bisogna andare avanti giorno per giorno, a piccoli passi, perché per ricaderci basta un attimo. Mi sta aiutando avere piccoli obiettivi raggiungibili. Sono diventato una persona migliore, ma non devo mollare la presa.
Cosa ti ha salvato?
Sicuramente non il carcere. Va bene che hai sbagliato, ma in quanto uomo hai diritto a una dignità e il carcere è un luogo di tortura, una palestra criminale. Non serve a redimerti, ma a tenere le persone parcheggiate. I percorsi alternativi invece possono davvero cambiarti: certo devi avere la volontà. Io ringrazio la comunità terapeutica di Manerbio, lo SMI (Servizio Multidisciplinare Integrato) di Ospitaletto, la Coop 81, la scuola IAL di Brescia, l’Academy Manerbio, gli avvocati che mi hanno difeso (Valeria Bertin e Gianbattista Scalvi), la mia psicologa dottoressa Karin Spinelli e per finire il responsabile Nicola Danesi.

di Stefania Vezzoli
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