Compleanni

Nata nel 1919, ultima di 8 fratelli, Domenica Bertoni a 106 anni è la donna più anziana della città

A festeggiare, oltre ai parenti e i suoi cari, c’è stato anche il primo cittadino di Manerbio, Paolo Vittorielli

Nata nel 1919, ultima di 8 fratelli, Domenica Bertoni a 106 anni è la donna più anziana della città

Domenica Bertoni nata a Manerbio nel 1919 racconta la sua lunga vita: la scuola in via Dante, la vita nei campi, il lavoro alla Marzotto, il matrimonio con Luigi Piovani.

La gioventù

La seconda guerra mondiale, la povertà e il dolore, ma anche la ripresa, il boom economico, la rinascita di uno Stato e del suo popolo. Per molti sono solo nozioni apprese sui libri; per lei, per Nani, sono ricordi.

“Sono nata a Manerbio alla cascina Campostrini Piccoli dei signori Ziletti (oggi il Palasturla, ndr), un anno dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e nel mezzo della pandemia Spagnola – ha raccontato la decana – Ero l’ultima di otto fratelli (prima di me, sono venuti al mondo Giovanni, Francesco, Giuseppe, Santa e il suo gemello Emilio vissuto solo alcuni mesi, Maria ed Emilia) e proprio loro, essendo io la più piccola, mi hanno dato il mio soprannome”.

A sette anni ha iniziato a frequentare la scuola elementare. Una nuova avventura per i piccoli di oggi, un’impresa per i figli dei contadini che abitavano nelle campagne.

“Per arrivare in paese percorrevo a piedi quasi quattro chilometri anche sotto le intemperie – ha continuato – A mezzogiorno, se i miei genitori avevano i soldi per pagare la refezione, andavo al vecchio asilo in via Solferino dove in uno stanzone c’erano dei tavoli di legno con dei fori in cui erano incastrate le ciotole di alluminio già colme di minestra o di riso. Accanto, mezzo panino. Nessuno fiatava, stavamo tutti zitti e buoni, fermi come soldatini, perché al terzo richiamo sarebbe arrivata in testa la canna di bambù. Finito il pranzo si giocava una mezz’oretta nel cortiletto, poi le maestre ci riaccompagnavano alla scuola, in via Dante, e al termine della lezione pomeridiana facevo ritorno a casa. Altri quattro chilometri a piedi con gli zoccoli. D’inverno, se c’era la neve, si formava uno strato alto e duro sulla suola e scivolavo: allora li toglievo e camminavo con le calze di lana fino a casa. Arrivavo infreddolita e sfinita”.

La vita in campagna fra la povertà e il senso di comunità

Niente stufe, men che meno caloriferi: allora ci si scaldava tutti intorno al camino. Sul gradino davanti al fuoco, la pentola annerita della minestra con cui Nani e i suoi fratelli riempivano la propria scodella: altro non c’era e le castagne cotte, preparate quando gli alberi si tingono di rosso, erano l’eccezione. Il freddo della miseria, delle ristrettezze era però reso più tiepido da quel senso di appartenenza, di comunità, che caratterizzava la vita nella campagne, quando le cascine erano i “condomini” di oggi.

“Nelle sere d’inverno tutte le famiglie del cascinale si riunivano nella stalla, al caldo. Le donne si sedevano in cerchio intorno a una lucerna, alcune sferruzzavano, altre cucivano o rammendavano; le ragazze da marito preparavano la dote, portando con sé, per tutto l’inverno, le lenzuola del corredo da ricamare. Noi bambini ci addormentavamo ai piedi delle mamme, seduti sulla paglia. Gli uomini si appartavano, chiacchierando del più e del meno. Alcune volte giungeva un cantastorie che attirava l’attenzione di tutti, ma in particolare dei bambini». Poi il trasloco (rigorosamente nel giorno di San Martino) dalla cascina Campostrini alla Fedrizze, al Monastero. Sul carro pagliericci imbottiti con le foglie secche delle pannocchie, alcune panche, la credenza, la madia per riporre la farina bianca e gialla, una gabbia con quattro o cinque galline o due conigli, due o tre sacchi di granoturco e altrettanti di frumento. «Questo era tutto ciò che possedevamo”.

Il tempo passava, la vita andava avanti, gioie e dolori si susseguivano al cambiare delle stagioni: il matrimonio dei fratelli, la scomparsa della mamma, morta ancora giovane, gli anni passati accanto al papà a Villa Rosa, nel cascinale dei fittavoli Magri.

“Capitava che la contessa lasciasse in cortile gli avanzi della tavola – i ricordi arrivano uno dopo l’altro – In estate, quella sottile e dolce polpa rosata dell’anguria rimasta sulla fetta era la merenda di noi fanciulli. E cos’erano quelle sfere marroni avvolte da una specie di tessuto filamentoso? Le lanciavamo in aria e le riprendevamo prima che toccassero il suolo. La volta in cui ci sono sfuggite di mano, con meraviglia abbiamo osservato la sostanza lattiginosa fuoriuscire dalle due metà ricoperte internamente da una polpa candida: erano le noci di cocco, un frutto commestibile, non un giocattolo, ma questo l’abbiamo saputo molto più tardi”.

Gli anni della Guerra

Il periodo della Seconda Guerra Mondiale lo ha trascorso in fabbrica. A 19 anni, dopo la morte del papà, Domenica ha vissuto con la sorella Maria, poi con Santa, lavorando in tintoria al Lanificio Marzotto, nel reparto finissaggio, dall’età di ventuno anni fino ai cinquantadue: un compito che ha svolto con passione coltivando anche amicizie sincere. E condividendo i timori, la paura, di vivere con l’allarme bombardamenti sulla testa.

“Quando una sirena ci avvertiva del pericolo imminente, fuggivamo tutti in Peschiera (attuale Vicolo Castelletto) per far ritorno ai reparti quando il pericolo era passato – ha continuato, accompagnando al ricordo della paura anche quello della felicità – Il 24 aprile 1945 mi sono recata a Milano a far visita alla mia cara amica Martina. Sono partita di buon mattino in sella ad una bicicletta da uomo presa in prestito da conoscenti, in compagnia di suo marito Fausto, di passaggio nel bresciano. La sera siamo giunti a destinazione e il mattino seguente, un’interminabile fila di camionette militari e di camion coi cannoni al seguito avanzava lentamente sulla strada poco distante dalla loro casetta. In lontananza si scorgevano i soldati sventolare il tricolore. E la notizia che la guerra era finita passava di bocca in bocca giungendo fino alla casa di Martina e Fausto. Che gioia immensa! Finalmente la Libertà!”.

Dopo pochi giorni l’arrivo in Piazzale Loreto: lì, sulla pensilina del distributore di benzina, fino a poco prima pendevano i corpi di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, poi rimossi per evitare “che la folla accanita ne facesse scempio”. Più in là, piazza Duomo, era gremita di gente.

“Tutti avevamo lo sguardo rivolto al cielo, fisso alla guglia maggiore. Alcuni uomini hanno tolto l’impalcatura di ferro che proteggeva le statua della Madonnina, poi lentamente hanno fatto scivolare il drappo nero che l’avvolgeva. Pian piano la Vergine Maria è apparsa luminosa e bella, la fanfara suonava mentre i cannoni sparavano a salve e gli aerei sorvolavano a bassa quota il Cielo circostante. Scrosciavano interminabili gli applausi. Tutti si abbracciavano. C’era chi pregava e chi piangeva. Di gioia. Come me. E’ stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita”.

Il matrimonio e i figli

Nel 1951 Domenica si è sposata con Luigi “Bigio” Piovani, all’epoca infermiere all’ospedale di Manerbio.

“E’ stato un giorno indimenticabile – una memoria che ancora scalda il cuore – Era amato da tutti per la sua bontà d’animo e professionalità, l’ammalato nelle sue mani era al sicuro ed i medici stessi nutrivano verso Bigio una stima illimitata. Sempre pronto, sempre disponibile, senza lamentele, magari dopo ore ed ore di movimentata sala operatoria”.

I primi passi della nuova famiglia che nel 1952 si è allargata con l’arrivo di Pierfausto e nel 1957 di Tiziana. Una felicità immensa, rotta nel 1974 dalla morte di Bigio.

“La sua mancanza ha creato un vuoto incolmabile, ma ho dovuto farmi forza per crescere da sola i miei giovani figli”.

Ma per fortuna non sono mancati nuovi sprazzi di luce come la nascita della nipote Anna e delle sue figlie, le pronipoti Bianca, Cecilia ed Ada. L’anno scorso a 105 aveva raccolto in un album testi e foto della sua incredibile vita.