L’incredibile storia del Maestro e Direttore di Musica Giovanni Ligasacchi e del suo amore Dusia, raccontata a Mairano nei giorni scorsi anche grazie alla figlia Marinella
L’amore nato in un campo di concentramento e diventato famiglia
Lo vediamo come un tempo lontano. Lo vediamo come un evento accaduto lontano da noi. Eppure la quella che è stata la Shoah è proprio dietro l’angolo. Un fenomeno storico che ha toccato tutti in quegli anni anche un semplice e giovane soldato quale è stato Giovanni Ligasacchi. Sì, proprio lui: quel Ligasacchi. Il Maestro, l’uomo, il pioniere.
Nato a Preseglie rimasto ben presto orfano passò la sua infanzia e adolescenza in un orfanotrofio in città, a Brescia, dove oggi sorge il “Calini”.
Fu lì a imparare la musica, sua grande passione, che lo accompagnò per tutta la sua vita, anche nei momenti più bui e disperati.
Proprio per inseguire quella sua formazione, dato il genio spiccato in tale disciplina, si arruolò come militare a Milano ove poté studiare per un anno, fino al 1940, nel Conservatorio Verdi.
Ma la guerra lo sorprese e le forze armate italiane, lui tra le fila della fanteria, lo spinsero prima ai confini con la Francia e subito dopo, senza ancor riuscire a comprendere cosa fosse il fronte, venne inviato in Albania. In luogo provò sulla sua pelle tutte le sfaccettature che si nascondono dietro a quelle sei sillabe: guerra. Anni lunghissimi, interminabili, e ancora all’orizzonte una nuova partenza per il territorio greco (sull’isola di Samos nel Mar Egeo orientale) dove scoprì, dagli inglesi, l’8 settembre 1943 che il governo Badoglio, firmò l’Armistizio, in cui la nostra nazione si arrese alle Nazioni Unite, ma i nazifascisti - pronti da tempo - la occuparono. Anche in questo caso, nemmeno il tempo di una “semibiscroma” che fu catapultato come prigioniero di guerra in un campo di concentramento. Dagli spartiti ai fili spinati.
Le note erano sparite, perse in quella sfumatura di grigio che nessuno vorrebbe mai conoscere.
Lavorò in miniera in un primo tempo e poi sulla ferrovia, zona ben più rischiosa per i bombardamenti. Un giorno però quel peso fu alleggerito da una nota. Questa volta non musicale ma di colore. Il colore degli occhi di Dusia che incrociarono i suoi. Anch’essa prigioniera Mittelbau-Dora in Germania. Giovanissima diciott’anni solo.
Nata in Russia, venne catturata in Ucraina dove si trovava ospite dalla sorella che li viveva quando rimase orfana. Fu deportata e imprigionata in quel lembo di terra dimenticato da Dio. Nessuno dei due parlava la lingua dell’altro ma l’amore ha un linguaggio tutto suo, linguaggio universale, accompagnato da un minimo di tedesco, la lingua del nemico, per poter comunicare.
Così, giorno dopo giorno, divennero l’uno per l’altra la ragione per sopravvivere e uscire da quell’inferno. A fine 1944, inizio del 1945, convolarono a nozze, all’interno del campo, con una cerimonia celebrata da un prete polacco anch’egli prigioniero.
Il campo venne liberato definitivamente qualche mese dopo il matrimonio per mano dell’Esercito statunitense, e i due novelli sposi riuscirono a fuggire e a lasciarsi alle spalle le oltre 20mila vittime che caddero in quell’anno e mezzo di attività sul territorio della Turingia.
Ci misero oltre cinque mesi di cammino, alternati qualche volta da mezzi di fortuna, addirittura una carriola, per giungere in Italia, a Villanuova sul Clisi. Dusia era incinta di due gemelli, Sergio e Ivan, nati nel novembre 1945. Dopo sette anni venne alla luce anche Marinella e si trasferirono a Preseglie e poi a Brescia, inseguendo il talento di Giovanni Ligasacchi con la musica dove veniva richiesto.
Maestro Giovanni Ligasacchi
Una volta in città ha lavorato in Pinacoteca, poi scoprì che serviva il maestro per la banda cittadina, la “Isidoro Capitanio”, ne prese la guida per ben 27 anni.
Non solo, ma addirittura portò la musica e l’educazione musicale in quartieri cittadini disagiati, condividendo la propria passione e portando lì quello spiraglio di luce che in campo di concentramento mancò a lui in prima persona. Molti i bambini che lo hanno adorato come allievi musicisti, tra questi Verzicco già noto maestro della banda flerese nei decenni scorsi, in segno di riconoscenza volle dedicare la banda di Poncarale-Flero.
Giovanni grazie al suo carisma sapeva risollevare le sorti dei corpi bandistici in difficoltà.
Il vissuto sia per Dusia che per lo stesso Giovanni li ha portati a guardare la vita e la libertà in modo del tutto nuovo. Quell’esperienza non li ha “incattiviti” come poteva essere comprensibile avvenisse.
L’amore li ha salvati in quel periodo e per tutta la vita. Nel 2003 Dusia morì, dopo due anni il suo Giovanni la raggiunse, forse non del tutto consapevole della traccia indelebile che seppe lasciare qui in diverse generazioni sino ad oggi e per il futuro.
L'intervento dell'assessore Arini di Mairano
Una storia che ha saputo tenere con il fiato sospeso, la sala gremita di palazzo Rossignol a Pievedizio, lo scorso sabato, raccontata dalla figlia del Maestro Marinella Ligasacchi affiancata dal Maestro Ugo Orlandi e dal Corpo bandistico Santa Cecilia di Mairano.
A introdurre la serata, promossa dal Comune in collaborazione con la Sezione Anpi locale, l’assessore alla Cultura e alle Politiche Sociali Paola Arini.
"La Giornata della Memoria, che celebriamo ogni anno il 27 gennaio, non è solo un momento per ricordare la tragedia dell'Olocausto, ma anche un'opportunità per riflettere sulla nostra capacità di costruire un futuro migliore. In questa giornata, ricordiamo le vittime innocenti della Shoah, coloro che sono stati privati della loro dignità, della loro vita, a causa di un odio cieco che non risparmiò nessuno, indipendentemente dalla razza, etnia o religione. Ma oggi, mentre ci confrontiamo con il dolore e la violenza che continuano a segnare il nostro mondo, è fondamentale che il ricordo di quegli eventi tragici non diventi solo un monito, ma anche una spinta a un cambiamento profondo. Le guerre, come quella che sta lacerando Israele e Palestina, ci ricordano che l’odio e la divisione tra i popoli sono ancora una realtà concreta. Eppure, proprio in queste circostanze, la memoria deve essere una fiamma di speranza, che ci indica una via diversa: quella della pace, della comprensione e dell'amore universale.Il messaggio che ci lascia la Giornata della Memoria è che la sofferenza non deve mai essere vissuta come una lezione di separazione, ma come un appello alla solidarietà, alla fraternità. Non possiamo permettere che le differenze – che siano di ceto, religiose, etniche, culturali o politiche – diventino motivo di conflitto. Dobbiamo, invece, guardare all’altro cercando sempre il dialogo, la comprensione e il rispetto che deve essere reciproco. Solo così possiamo davvero onorare la memoria di chi non c'è più e garantire che la tragedia del passato non si ripeta donando ai nostri figli e nipoti un mondo migliore".