Quanto è importante l’uso della parola per l’essere umano, dai suoi primi anni di vita sino all’età avanzata? Da sempre la necessità di comunicare è fondamentale per l’uomo e da alcuni decenni a questa parte è nata una branca della medicina riservata esclusivamente allo studio del linguaggio e a tutto ciò che ne deriva: la logopedia. Sempre più importante per il corretto sviluppo del linguaggio, il ruolo del logopedista, è ritenuto fondamentale specialmente nei bambini di età prescolare. Annamaria Colombo, rinomata logopedista, insegnante ed autrice del libro «La voce che insegna», ci ha raccontato caratteristiche e compiti di una branca giovane (pone le sue radici negli anni ’80) qual è la logopedia.
Dottoressa Colombo, a chi non ha mai sentito parlare di logopedia, saprebbe indicare in cosa consiste il lavoro del logopedista?
«Si tratta di una figura sanitaria, relativamente giovane, che si occupa delle aree connesse con la parola, la voce e il linguaggio. Ovviamente poi ci sono ulteriori sviluppi che portano allo studio del linguaggio scritto e delle funzioni orali come la masticazione, la deglutizione e il posizionamento della lingua. Si tratta di un mestiere con base e con studi scientifici molto approfonditi, ma che può avere approcci differenti in base a chi affronta il nostro mestiere».
Uno degli aspetti più importanti del suo lavoro riguarda senza ombra di dubbio lo sviluppo linguistico dei bambini. C’è più attenzione rispetto al passato da questo punto di vista?
«In realtà io penso che ci sia sempre stata una grande attenzione dei genitori sulla questione della parola. Alla fine cos’è che ricordano di più? Quando loro figlio ha iniziato a parlare e quando loro figlio ha mosso i primi passi camminando. E’ un momento molto atteso da tutta la famiglia. E io aggiungo giustamente, in quanto è importantissimo strutturare il linguaggio del bambino in modo tale che arrivi alla prima elementare il più preparato possibile per imparare a leggere e scrivere. Esiste infatti una correlazione molto forte tra capacità linguistica e capacità di lettura e di scrittura; così come un bambino che non legge e non scrive bene ha molte più possibilità di avere disturbi di apprendimento».
Quali sono i campanelli d’allarme che possono portare i genitori a pensare che il proprio figlio abbia bisogno di una visita logopedica? E a quanti anni si manifestano?
«L’avvisaglia da non sottovalutare è quella della scarsa quantità di parole pronunciate. Generalmente se a 3-4 anni il bambino non parla tanto, qualcosa che non va potrebbe esserci e in quel caso è necessario fare quantomeno una consultazione specialistica. Prima di questa età, attorno ai 2 anni, è molto utile richiedere quello che chiamiamo “consiglio familiare”, che consiste in alcune dritte per fare in modo che lo sviluppo linguistico dai 3 anni in su non abbia intoppi. Fino ad alcuni anni fa l’età consigliata per una stimolazione linguistica era di 5 anni ma così si rischia di arrivare al limite con l’inizio delle elementari perché generalmente il trattamento, in caso di una reale necessità, richiede un anno. Occorre intervenire il prima possibile: già in prima elementare si fa più fatica perché si sovrappone l’insegnamento della lettura e della scrittura, aumentando le tempistiche del trattamento. L’obiettivo finale è quello di far arrivare il giovane paziente alla terza elementare con un linguaggio che sia il più rafforzato possibile; poi, dalla terza, le griglie di verifica scolastica sono molto più precise riguardo i disturbi di apprendimento, ma prima il potenziamento linguistico è fondamentale».
Passando invece alla cura dell’adulto, spesso è richiesto il vostro intervento in caso di malattia degenerativa o comunque in situazioni piuttosto compromesse. Come cambia l’approccio nei confronti di questi pazienti?
«Se col bambino si tenta la stimolazione e il recupero di determinate facoltà, con questi pazienti, si punta più al mantenimento dell’attività residua, cercando di fare tutto il possibile. Due sono solitamente gli obiettivi: mantenere la nutrizione orale, anche parziale, evitando l’alimentazione col sondino; mantenere l’abilità comunicativa intatta. Sono due cose che alzano notevolmente la qualità della vita del paziente».
Quella del logopedista è una figura sempre più richiesta e sempre più utile. Qual è il futuro di questo mestiere?
«Si tratta di una figura professionale che corre veloce perché gli studi sono in continuo aggiornamento, specialmente dall’America. Se non resti al passo coi tempi, tra convegni e seminari, rischi di fare delle proposte in maniera errata. Da quando ho iniziato io gli approcci sono stati rivoluzionati e questo non perché prima ci fosse incompetenza, ma perché si tratta di una branca in continuo sviluppo. A mio parere non si può prescindere dalla multidisciplinarietà e dal confronto con gli altri colleghi per migliorarsi insieme. Ultima qualità che occorre è il coraggio: coraggio di sospendere una terapia quando si realizza che sta fallendo. Ci vuole molta umiltà e molta voglia di ripartire per migliorarsi».
In questo contesto quanto può essere utile la rete?
«Tantissimo, penso che l’online sia fondamentale per creare una sorta di sviluppo e di aggiornamento colletivo. Come dicevo prima bisogna avere l’umiltà di capire che non si ha la verità in mano e che se si collabora, le possibilità di arrivare più lontano e più in fretta si moltiplicano».
In conclusione, lei è anche autrice di un libro, ce ne parli.
«”La voce che insegna” è un libro pensato per gli insegnanti. Questo manuale offre agli insegnanti contenuti teorici e informazioni utili per un uso efficace della voce in classe, esercitazioni per gestire nel modo migliore il respiro, la tensione muscolare, la stanchezza vocale, il volume e l’intonazione».