Gianmarco Bellini, eroe di guerra dimenticato
Sono passati 25 anni dalla Guerra del Golfo, da quella notte terribile del 18 gennaio 1991 durante la quale due piloti italiani, che partecipavano in supporto all’operazione americana «Desert Storm», il Capitano Maurizio Cocciolone e il Maggiore Gianmarco Bellini, furono abbattuti in un conflitto aereo con gli Iracheni e liberati solo 47 giorni dopo, alla fine della guerra, lasciando famiglia, amici e opinione pubblica nell’angoscia di conoscere quali fossero le loro condizioni di salute. A distanza di tanti anni e con una situazione internazionale non meno fosca di allora, ci siamo chiesti dove siano finiti i protagonisti di quella vicenda che ha molto interessato i bresciani visto che i due piloti facevano parte del gruppo di volo 155 quello delle «Pantere Nere», di stanza a Ghedi dal 1984 al 1990 e trasferito solo nel luglio del Novanta a Piacenza dove ha sede tutt’ora. Abbiamo raggiunto il Generale Gianmarco Bellini negli Usa dove vive dal 2005 e dove fa l’istruttore in un piccolo aeroporto in Virginia, gli abbiamo chiesto cosa ricordi quell’esperienza così drammatica e in che rapporti sia rimasto con il suo compagno di avventura.
«Quella notte è impressa nella mia mente a caratteri indelebili, ricordo tutto: la preparazione accurata della missione, la tensione acuta dei piloti e del personale che ci assisteva in linea volo, il sentore profondo che saremmo entrati nella storia, i momenti concitati prima dell’eiezione dal Tornado ormai ingovernabile, la prigionia durissima, la liberazione e soprattutto l’abbraccio con mio figlio Gianluca che allora aveva due anni. Con Maurizio ci siamo rivisti dopo il rilascio, sulla nave americana Mercy dove siamo stati ricoverati per gli accertamenti medici di rito. L’esperienza ha rinsaldato un rapporto di forte fratellanza che esisteva già a monte perché fare parte dello stesso equipaggio vuol dire essere molto più che amici. Le vicissitudini della vita ci hanno fatto prendere strade diverse, ma la sostanza del nostro rapporto non cambia e quando ci sentiamo il tempo sembra non essere passato.» Il Generale Bellini era e rimane un eroe di guerra anche se questa dicitura non compare negli annali militari italiani visto che i piloti non risultavano in azione bellica ma «a disposizione del comandante di corpo», cioè formalmente in attesa di essere assegnati a qualche missione, nonostante l’intervento dell’aeronautica italiana abbia contribuito significativamente alla realizzazione della più grande componente aerea che abbia partecipato ad un conflitto armato e sia stato decisivo per la sua veloce risoluzione. «I fatti che ci riguardano risultano quasi dimenticati in Italia dove parlare di guerra è ancora un tabù» aggiunge Bellini «anche se di guerra di liberazione si è trattato in quanto il Kuwait era uno Stato sovrano illegittimamente invaso e occupato dall’Iraq e quelle azioni mirate hanno permesso di risparmiare molte vite umane.
In questi casi sembra più tranquillizzante parlare di interventi umanitari anche se i nostri soldati continuano ad essere uccisi in vere e proprie battaglie. Dare il giusto valore a chi si sacrifica la propria vita per la patria e per la difesa della libertà, però, è importante. Lo dobbiamo ai nostri soldati, alle loro famiglie, che rischiano ogni giorno in prima persona per un ideale preciso, e agli stessi Italiani. Mi auguro che le istituzioni arrivino quanto prima a questi riconoscimenti.» Il Generale Bellini, che da poco è stato insignito anche del titolo di Console italiano, ha lasciato il comando del Sesto Stormo nel 2003 ma sottolinea senza incertezze come volare in Aeronautica Militare sia il lavoro più bello del mondo, quanto gli manchi la base di Ghedi, la tuta da volo, il Tornado, perfino l’anti G e soprattutto l’Italia con le sue città e la sua cultura. L’America però l’ha saputo accogliere generosamente: una nazione dove i valori di difesa della patria ed il rispetto della persona sono ancora molto sentiti e dove gli eroi di guerra non vengono dimenticati.
Marzia Borzi