Elsa Cherubini è nata a Montichiari nel 1938 da una famiglia di ortolani ed è una preziosa testimone sia dell’esperienza agricola della sua famiglia di origine che di quella dell’attività portata avanti insieme al marito, Luigi Bertasi: la macinazione dei cereali nel mulino a cilindri che sorgeva in mezzo ai campi nella frazione di Ro e che è stato attivo tra il 1965 e il ’91; uno dei mulini novecenteschi più ricordati dai monteclarensi, come il Mulino Ghisi che, invece, si trovava in Via Guerzoni e che, a differenza del Mulino Bertasi che era mosso da energia elettrica, era azionato dalla ruota idraulica posta sul Vaso Reale.
Elsa, cosa ricordi del lavoro di ortolano di tuo padre?
«Eravamo sei fratelli, vivevamo con gli zii e la nonna. La mia mamma mancò a soli 45 anni, quando io avevo cinque anni, ma fortunatamente non ne risentii troppo grazie alla presenza della nonna e delle zie. L’orto coltivato da mio padre Antonio, da suo fratello Felice e da suo figlio Paolo si trovava in Via Martiri della Libertà, vicino alla nostra casa. Era molto grande e confinava con altri campi, col Mulino Ghisi e con la casa della famiglia Frigerio che a quel tempo realizzava mattonelle. L’orto dava tanto lavoro: si coltivavano verdure di ogni tipo e qualche pianta di pesche, prugne, more. Si vangava e si zappava a mano e in maniera del tutto naturale. Avevamo un cavallo che forniva letame e che si usava per tirare il carretto carico di verdure fresche da portare in piazza, dove mio padre si recava tutte le mattine: ricordo che io, piccolina, lo aiutavo a spingerlo. Mio papà e soprattutto mio zio Felice guardavano la luna per le varie operazioni agricole, preferendo il venerdì per la semina, perché si diceva che di venerdì la luna ‘non comanda’. Delle piante migliori, soprattutto di piselli, fagioli e pomodori, tenevano i semi per poterli seminare la stagione successiva. Ricordo anche che nel campo crescevano spontaneamente radici bianche, amarissime, che si diceva facessero molto bene alla salute. In inverno cresceva poca verdura: un po’ di radicchi e di cavoli, ma non avevamo il denaro per poter comprare le coperture che ci sono oggi. Oggi, quando vado al supermercato ma anche al mercato del venerdì, vedo banconi pieni di verdure lucidissime, anche non di stagione e che sicuramente vengono da molto lontano. Un tempo invece si mangiavano solo verdure locali e di stagione. C’era meno abbondanza ma forse più qualità. Mio padre mancò nel ’63. Il figlio di mio zio Paolo, Ottorino, ma da tutti conosciuto come ‘Popi’, fu quello che portò avanti il mestiere di fruttivendolo, aprendo un negozio in Piazza Treccani degli Alfieri, dietro il Duomo, tuttora portato avanti da suo figlio Paolo, che per i cent’anni di attività ha organizzato una bellissima festa, esponendo le vecchie fotografie della nostra famiglia e del lavoro di un tempo».
Quando ti sei sposata con Luigi Bertasi, con cui hai avviato il mulino a Ro?
«Ci siamo sposati nel ’59. Lui è nato nel ’32 a Borgosotto. Quando era via militare, la sua famiglia aveva costruito la casa di Via Turati dove viviamo ancora oggi. Ha lavorato come muratore e successivamente al Mulino Botturi che era dopo il Mulino Ghisi verso Borgosotto. In seguito, in virtù dell’esperienza maturata da Botturi, ha trovato lavoro al Mulino Viola di Padenghe, un opificio molto grosso che lavorava giorno e notte, dove ha prestato servizio fino al ’61, quando si è messo in proprio. Grazie a un mutuo in banca con la firma del nonno abbiamo acquistato un terreno a Ro, prima della croce, dove abbiamo costruito il nostro mulino. Attorno c’erano tutti campi a parte la casa della famiglia Treccani. In 52 giorni il mulino era pronto grazie alle abilità di mio marito e all’aiuto del signor Baroni, che di mestiere aggiustava proprio i macchinari dei mulini. Abbiamo comprato i macchinari usati, che andavamo a prendere alle quattro di mattina del sabato e la domenica presso opifici che avevano smesso l’attività. Socio di mio marito Luigi era suo fratello Mario».
Come si svolgeva il lavoro all’interno del mulino?
«Era strutturato su tre piani separati da una soletta. A differenza dei mulini mossi dalla ruota idraulica che, grazie a una serie di ingranaggi, metteva in moto la macina superiore alloggiata su quella inferiore fissa, il nostro mulino era a cilindri, mossi da energia elettrica. Anziché essere compresso e disintegrato tra le macine a pietra, il chicco di cereale passava attraverso una serie di coppie di cilindri rotanti, tutti nella stessa direzione, fabbricati in ghisa dura. In questo modo si otteneva una farina più raffinata e meno deteriorata perché non veniva surriscaldata come avveniva a causa dello sfregamento della pietra. Macinavamo solo granoturco che acquistavamo soprattutto nel Mantovano e in una grossa azienda di Carpenedolo. La farina macinata finemente, detta fioretto, era destinata all’alimentazione umana e, quindi, a cucinare la polenta, mentre la crusca, macinata meno finemente, era per l’alimentazione dei polli. Da un quintale di mais ottenevamo circa 35 chili di farina per far polenta e 70 chili di crusca. Venivano a macinare il proprio mais anche dei contadini di Montichiari, perché un tempo tutti seminavano il granoturco per polenta, a differenza di oggi in cui, invece, è tutto destinato all’alimentazione animale, soprattutto dei bovini. Quello di un tempo era un mais rustico di color giallo chiaro, oltre al quarantino di colore rossastro che era molto diffuso sia qui che in montagna grazie al suo ciclo breve di maturazione, che riusciva a compiersi anche in climi più freschi. Qui nella Bassa la polenta si è sempre mangiata molle, servita su tagliere e tagliata col filo. Per fare una polenta più consistente e saporita, invece, si mescolavano la farina gialla e quella di quarantino. Quando aveva 40 anni, mio marito acquistò col fratello Mario anche un mulino a pietra per fare la farina integrale di frumento: era buonissima, più sana; con quella farina facevo il pane».
Collaboravi anche tu al lavoro del mulino?
«Sì. Ricordo che, quando avevo mia figlia Sandra piccola, la mettevo seduta sul seggiolone alla finestra della casa di fronte per poterla vedere e affinché lei vedesse me mentre stavo lavorando. Ho fatto quattro anni così! Io facevo andare il mulino per preparare 25 quintali di macinato destinato ai maiali e pesavo i sacchi da 90 chili, prima di prendere il montacarichi con cui caricare i sacchi sul camion. Abbiamo preso anche una vecchia macchina per confezionare sacchetti da un chilo di farina per far polenta, chiuderli con la colla e impacchettarne venti alla volta».
Quando si è conclusa l’attività del mulino Bertasi?
«Nel ’91. Dopo aver raggiunto la pensione di mio marito, abbiamo chiuso il mulino e venduto i macchinari in provincia di Verona. Nel fabbricato fu poi realizzato un bar e in seguito degli appartamenti. Chiuso il mulino siamo tornati in paese nella casa di famiglia di Luigi che nel frattempo abbiamo sistemato: adesso sono 25 anni che siamo qui».