Capriolo

La testimonianza di Diego Buizza: "Non mi sono arreso al Covid"

La straordinaria testimonianza del capriolese che ancora oggi paga le conseguenze della malattia contratta nel febbraio scorso

La testimonianza di Diego Buizza: "Non mi sono arreso al Covid"
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Per non vivere più l'incubo del Covid 19, di cui ancora oggi paga le conseguenze, Diego Buizza non ha avuto dubbi ed ha deciso di vaccinarsi.

La storia

Ha resistito con forza, lontano dalla sua amata famiglia, più di due mesi in ospedale. Ma proprio grazie all’amore dei suoi cari, che gli hanno sempre fatto sentire profondo affetto, e alla professionalità di «medici e infermieri, i nostri “Angeli” terreni» il capriolese Diego Buizza, classe 1963, è riuscito a sconfiggere il Covid. E per non vivere più questo incubo, nel quale ha perso 25 chili, ha deciso di vaccinarsi.
La sua probabilmente è una storia che hanno vissuto tanti cittadini bresciani colpiti dalla pandemia, ma questo non significa che non sia ugualmente straordinaria. Lo è senza dubbio, anche per le parole usate dall’impiegato 58enne, che ha voluto raccontare il suo calvario, la ripresa, ma anche le conseguenze che questa malattia subdola, a distanza di sette mesi, ha lasciato sul suo corpo.

La malattia

«Tutto è iniziato il 19 febbraio, era un venerdì - ha raccontato Buizza - Quando sono tornato a casa dal lavoro, mi sentivo strano, inspiegabilmente stanco e con poco appetito. Non avevo febbre, ma sentivo che qualcosa non andava. Sabato mi sono messo a tagliare in giardino la mia pianta di kiwi, ma la sera sono tornate la stanchezza e la mancanza di appetito e insieme anche alcune linee di febbre e un po’ di tosse secca. Domenica mattina sono stato visitato da un amico medico che mi ha consigliato di iniziare le cure da “caso Covid” dato che i sintomi erano quelli. Inoltre, ero venuto a sapere che il mio responsabile sul lavoro aveva i sintomi da Covid con febbre alta».
Il 24 lui e la moglie si sono sottoposti al tampone: lei negativa, lui positivo.
«Nel fine settimana sono peggiorato e ho cominciato a faticare nel respiro, la saturazione era scesa a 92 e domenica 28 la dottoressa amica di famiglia ci ha consigliato di andare al pronto soccorso - ha continuato - Sono stato in “osservazione” dalle 14 alle 19 e dopo vari esami e controlli, mi hanno mandato a casa. Lunedì 1 marzo la situazione è peggiorata: alle 23 non sono riuscito più a respirare. Ho chiamato il 112 e l’ambulanza mi ha riportato alla Poliambulanza: in quell’attimo ha avuto inizio il mio vero calvario. Ho pensato subito al rischio di non poter più rivedere mia moglie Terry e la mia nipotina Anna nata il 9 febbraio, la mia casa e tutte le persone cui voglio bene. Non riuscivo a darmi pace perché pensavo a quanto il destino fosse avverso, a quanto in quest’anno fossi stato attento e avessi rispettato le regole preventive. Questa volta, in Poliambulanza, mi hanno trasferito al Policlinico San Pietro, perché era tutto pieno. In ospedale sono rimasto fino l’8 maggio».

In ospedale

All’inizio sembrava che la situazione si potesse risolvere in pochi giorni con il solo utilizzo della mascherina con l’ossigeno, ma la malattia invece «mi ha riservato brutte sorprese. Sono stato male e anche mia moglie si è ammalata. In quel momento ho avuto tanta paura: ero terrorizzato che anche lei potesse finire in ospedale per colpa mia. Non me lo sarei mai perdonato. Ho pregato tanto. Per lei è stata dura e non so dove abbia trovato la forza, ma fortunatamente dopo una decina di giorni è guarita senza problemi. Per me, invece, il destino ha riservato altro».
Dopo tre giorni la mascherina non era più sufficiente e nella notte tra il 5 e il 6 marzo i medici hanno deciso che «mi dovevano mettere il casco per la Cpap, ossia lo scafandro utilizzato in ambito intensivo per la somministrazione della Continous Positive Airway Pressure che ho tenuto per 23 lunghi giorni: in quell’attimo ho iniziato a preoccuparmi seriamente, ad avere pura, quella vera, della quale nemmeno ora mi vergogno».

Il casco

E’ rimasto isolato e con il casco, in una stanza dove «pensavo veramente di non farcela perché questo virus è strano: non stai molto male fisicamente ma lentamente ti spegne, ti fa dormire continuamente e non ti rendi conto che potresti non risvegliarti più», ha aggiunto.
In quei giorni Buizza ha lottato anche grazie al sostegno degli «Angeli» terreni.
«Una dottoressa della Rianimazione il giorno seguente mi ha sussurrato all’orecchio: “Devo, assolutamente devo, reagire altrimenti rischio di essere intubato perché non riesco a tenere il sondino di alimentazione quindi non mangiando a sufficienza rischio di non farcela” - ha continuato il capriolese, che ha usato parole sincere, vere e profondamente toccanti - Dovevo trovare la forza da qualche parte e l’ho trovata! L’ho trovata grazie alla “vicinanza” di tutti gli amici e dei parenti che ogni giorno mi inviavano messaggi di incoraggiamento. Mi sono aggrappato ad ogni messaggio, l’ho letto e riletto ed ognuno di loro mi ha dato la forza di resistere. Purtroppo con il casco non potevo telefonare, per 23 giorni mi hanno aperto la cerniera anteriore solo per mangiare, solo per 2 minuti e solo per 3 volte al giorno perché la saturazione in quei pochi istanti scendeva».
A volte Buizza non riusciva nemmeno a rispondere ai messaggi, «ero troppo demoralizzato. Ero solo con il mio casco. Gli sguardi dei dottori che passavano ogni mattina erano il mio unico metro per comprendere cosa stava succedendo, se andava meglio o peggio. “Non posso arrendermi”, mi sono detto e ho iniziato a farmi forza, cercando di vivere come una vittoria anche il più piccolo dei segnali positivi che riuscivo a scorgere, a partire da quei pochissimi istanti in più lasciatimi col casco aperto, al tocco sulla mia spalla, segno di incoraggiamento costante, da parte di dottori e infermieri».

La svolta

Ogni giorno i medici modificavano le impostazioni dei flussi di ossigeno ed ogni giorno Buizza diventava più forte e il casco restava aperto sempre di più.
«L’ho lasciato per sempre sulla poltrona il 27 marzo - ha aggiunto - Ho avuto la fortuna di rinascere. Lo penso e lo dichiaro: ho due date di nascita, il 25 settembre del 1963 e il 27 marzo del 2021».

La rinascita

Piano piano il capriolese è tornato alla normalità, è tornato a camminare, «anche se non è stato facile visto che avevo perso 25 chili - ha continuato - Ma finalmente dalla finestra sono riuscito a rivedere mia moglie! Era nel parcheggio dell’ospedale, a 200 metri di distanza, ma non dimenticherò mai la felicità di quel momento e ancor più di quando, pochi giorni dopo, ho raggiunto la porta nel corridoio e mantenendo le distanze e senza sfiorarci l’ho vista a pochi centimetri da me. Poi è stata la volta di mio figlio Nicola e successivamente di mia sorella Daniela che è scoppiata a piangere. Lì mi sono reso conto di come e quanto la malattia mi avesse segnato, dentro e fuori, di quanto gli altri fossero stati in pena per me».

Il fungo

Buizza era in attesa della lettera di dimissioni, ma l’ultima Tac aveva rilevato la presenza di un fungo e l’unico modo per curarlo era purtroppo il bombardamento di 7 flebo al giorno.
«Questa sorpresina mi è costata un altro mese di ricovero. Anche in quei giorni mi ha sfiorato la depressione, ma poi ho pensato che avevo appena vinto la battaglia più grande, quella contro il virus - ha spiegato Buizza - Sono uscito dall’ospedale l’8 maggio, dopo più di due mesi di ricovero».

Il tempo perso

«Facendo la conta, ho trascorso la domenica delle Palme, la Pasqua, il 25 Aprile, il Primo Maggio in ospedale, ho perso i primi mesi di vita della mia nipotina Anna (figlia di Nicola e della moglie Silvia, ndr), ho perso insomma una parte della mia vita», questa la riflessione del 58enne.

Continua la battaglia

Ma a distanza di sette mesi, la battaglia di Buizza non è terminata.
«Proseguo le cure, non ho ancora del tutto il fiato, in salita o per le scale vado in affanno, non ho ancora ripreso il mio lavoro - ha concluso il capriolese, che ha ringraziato la sua famiglia, gli amici e i colleghi dell’azienda di Cazzago San Martino dove lavora - Per tutto questo mi sono già vaccinato. Perché non intendo più vivere quello che ho passato e perché questa malattia mi auguro non la prenda proprio nessuno».
Una storia straordinaria raccontata anche a Radio Capital a Selvaggia Lucarelli, vissuta da un uomo che ha avuto la forza di resistere, nonostante la situazione fosse complicata. E’ riuscito a superare questo incubo grazie all’amore dei suoi e soprattutto alla professionalità dei medici e del personale dell’ospedale. Ma la sua storia indirettamente è anche un invito a vaccinarsi, perché purtroppo tante altre persone finite in ospedale per Covid non hanno avuto la fortuna di riabbracciare i propri cari.

Simone Bracchi

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