Cosa succede dentro i centri massaggi cinesi

Cosa succede dentro i centri massaggi cinesi
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Lì dove fino a un paio di anni fa sorgeva una macelleria, oggi ci sono loro. Oppure là, dove fino al 2013, ogni mattina, tirava su la serranda il ferramenta, oggi ci sono loro. Soprattutto in periferia, ma sempre più spesso in vie vicine al centro. Le loro insegne pacchiane e luminose illuminano l’ombra dei portici e le strade buie la sera. Sono sempre aperti, più o meno, sebbene non si veda mai entrare nessuno. Eppure i centri massaggi cinesi sono forse l’unica attività commerciale in forte espansione.

Il fenomeno non è certo nuovo. Un immobiliarista di Bergamo, abituato a trattare case e negozi di ampia metratura (ed elevato costo), tre anni fa rivelava che «dobbiamo soltanto dire grazie, ai cinesi. Se riusciamo a non tenerci sul groppone locali sfitti in provincia per anni e anni, con questa crisi, è soltanto grazie a loro che pagano bene e pagano cash. Quei centri massaggi sono una manna dal cielo». Avere numeri ufficiali, però, è praticamente impossibile. «Non si dispone di dati statisticamente significativi a questo livello di dettaglio», comunica la Camera di Commercio. Al massimo si può risalire a tutte le attività legate al mondo del benessere a Bergamo, ma si tratta di un’etichetta troppo ampia, certo non utile a farsi un’idea reale. A Milano qualche dato in più, invece, c’è: nel 2007 i centri massaggi cinesi erano meno di dieci, oggi sono più di trecento, con quasi duemila persone impiegate (legalmente). Sebbene non ci siano numeri ufficiali, a Bergamo basta girare per la città per scattare una fotografia delle reali proporzioni del fenomeno.

Enorme vetrine colorate raccontano di oasi di relax e tocchi delicati, lasciano immaginare angoli di benessere orientale e sensazioni zen. Eppure, di quello che c’è dentro, nulla si vede e nulla si sa. Perché fa parte del gioco, se così vogliamo chiamarlo. Non è un caso se, sin dal loro boom all’inizio del decennio in corso, abbiano attirato la curiosità di molti. Le voci, del resto, corrono veloci. E quando si parla di «centri massaggi cinesi», si dà per scontato che il “massaggio”, nella fattispecie, sia proprio “quel massaggio”. Quello «romantico», insomma. Con «l’happy ending», come dice qualcuno. Ma è davvero così? Possibile che dietro ogni insegna al neon multicolor e vetrina viola decorata con fiori di loto prestampati si nasconda, in realtà, una sorta di casa chiusa legalizzata? Trovare frequentatori disposti a raccontarlo è praticamente impossibile. Spesso si parla degli «amici» che ci sono stati (un sacco di gente ha «amici» che hanno fatto cose socialmente riprovevoli, vero?), ma testimonianze dirette zero. Per questo sono andato io.

 

 

La porta è chiusa, per entrare bisogna suonare. Sul campanello, due messaggi chiarissimi: «Aperti dalle 9 alle 23 (no domenica)» e «No bancomat, no credit card». Solo contanti, a tutte le ore. Passano diversi secondi prima che qualcuno apra, istanti passati a guardare a destra e sinistra, sperando che nessuno veda dove sto per entrare nonostante sia pieno pomeriggio. Finalmente la porta si socchiude e una voce leggermente stridula ma gentile mi invita a entrare. Una scrivania e un divanetto riempiono uno spazio stretto e lungo. Delle lampadine viola e gialle illuminano questa sorta di corridoietto. La ragazza che ha aperto, minuta ed esteticamente anonima, sorride e mi chiede se voglio fare un massaggio. Annuisco. Prendendomi la mano, mi accompagna in una stanza defilata, decisamente più ampia della precedente. Un lato è interamente occupato da un letto da una piazza e mezza, l’altro è invece destinato a una grande vasca e un piccolo lavandino. Susanna (così dice di chiamarsi), con un italiano zoppicante ma comunque chiaro, passa subito agli affari. «Un’ora o mezz’ora?». Mezz’ora. «Massaggio romantico, sì?». Il gesto che accompagna la domanda è inequivocabile. Scuoto la testa e noto il disappunto nei suoi occhi. Si aspettava una risposta diversa, ovvio. «Sono cinquanta. Pagare subito, prego». Tiro fuori il portafogli e le allungo i soldi. «No massaggio romantico? Solo sessanta eh». No, grazie, ho solo un po’ di mal di schiena… Fa tipo una smorfia, dice ok e mi indica l’angolo in cui spogliarmi. Poi esce dalla stanza. Nonostante abbia acceso una radio gracchiante che propone sonorità orientali non meglio precisate, riesco a sentire che parla con qualcuno in cinese.

Una volta rientrata, mi trova ad attenderla in mutande. Mi dice di toglierle ma mi rifiuto, causandole una nuova smorfia perplessa. Una volta sdraiato inizia il massaggio. Mentre mi riempie il corpo di un olio dal profumo dolce e penetrante, finanche fastidioso, le faccio qualche domanda. Susanna ha 28 anni e vive in Italia da cinque. È a Bergamo soltanto da tre mesi perché prima viveva a Torino, dove lavorava come contadina. In Cina, invece, faceva massaggi, proprio come qui. «Però no romantici. Là come te. Là vietato» spiega. Mentre risponde, con le mani cerca di spingermi ad accettare la sua romantica proposta, ma gentilmente mi scanso o le tolgo le mani da punti inopportuni del mio corpo. Più che un massaggio, è un’estenuante battaglia contro la sua insistenza. Più che rilassarmi, mi mette l’ansia. La verità è che non vedo l’ora che tutto questo finisca. Forse lei lo percepisce e si ferma. «Tu vuoi corpo corpo?». Come scusa? «Tu vuoi corpo corpo?», mi ripete mentre si alza il corto abito che ha addosso. La fermo con una mano e le dico, ringraziandola, che non mi interessa e che vorrei solo che provasse a farmi passare il mal di schiena. La sua maschera imperturbabile viene nuovamente rotta da quella smorfia perplessa di prima. Le chiedo quante persone massaggia, abitualmente. Anche venti al giorno, mi dice. Ma quasi tutti con massaggio romantico, perché con l’aggiunta lei guadagna di più e i clienti son più contenti. Mi dice anche che è meglio fare questo che lavorare nei campi, ma quando le chiedo chi sia il suo capo e quanto guadagni, si limita a un laconico «no si dice, no si sa» ripetuto più volte.

Finalmente, dopo venticinque minuti circa di oleose carezze e svariati tentativi di convincermi a lasciarmi andare, il trattamento finisce. Mi dice che posso usufruire della vasca, cosa praticamente obbligatoria data la quantità di olio utilizzato e il suo ficcante odore. Vorrebbe anche darmi una mano, a lavarmi. «Solo dieci euro». Mi sento quasi in colpa a rifiutare per l’ennesima volta. Circa dieci minuti dopo, sono fuori. Susanna mi ha salutato con un sorriso e un «tu torna presto», invito che rimarrà inascoltato. A passo veloce, preso dalla stessa vergogna di quando sono entrato, mi avvio alla macchina. Naturalmente della ricevuta neppure l’ombra. Mi è rimasto il mal di schiena e mi serve un’altra doccia.


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