Condannato a 22 anni di carcere per un omicidio commesso nel 1999
Per i primi medici la vittima era morta a causa di una meningite, mentre per i colleghi per le ferite riportate durante la rapina. La Corte d'Assise ha creduto a questa seconda ricostruzione.
Parola fine (in primo grado) al Cold case tutto all'italiana andato in scena a Chiari più di 20 anni fa.
Condannato a 22 anni di carcere per un omicidio commesso nel 1999
Il pubblico ministero aveva chiesto l'ergastolo, ma la Corte d'Assise di Brescia, presieduta dal presidente Roberto Spanò, ha condannato Lulzim Rubjeka a 22 anni di reclusione per l'omicidio del connazionale Muca Bajram, avvenuto nel lontano 1999, quasi 22 anni fa a Chiari. Una vicenda che ha davvero dell'incredibile, che anche durante il processo aveva visto professori e medici discutere sui risultati delle due diverse autopsie eseguite in questi 20 anni: il verdetto della prima sosteneva che la vittima fosse morta a causa di una meningite; mentre per i secondi a causa delle percosse subite durante la rapina. Evidentemente i giudici hanno creduto a questa versione. L'avvocato dell'imputato, Ilenja Mehilli, aveva chiesto invece l’assoluzione per non aver commesso il fatto, in subordine la derubricazione del reato da omicidio volontario in preterintenzionale e di conseguenza l’intervenuta prescrizione. E, infine, l'assoluzione per la rapina e in subordine la derubricazione in rapina semplice. Ma così non è stato. Ma questa vicenda ha dell'incredibile anche per il complice, che solo durante il processo è "spuntato fuori": un altro albanese che si trova già in carcere per altri reati. Ma lui non era imputato in questo processo e quindi si procederà separatamente.
Le parole dell'imputato nelle precedenti udienze
"Il mio assistito ha ribadito quanto aveva detto in occasione dell’interrogatorio di garanzia nel 2017: ha collaborato e ha ammesso che quella sera era presente, ma ha sottolineato di non aver fatto nulla, attribuendo la colpa di quanto accaduto alla persona che aveva accompagnato", aveva spiegato l’avvocato del Foro di Roma, Ilenja Mehilli.
Già nel 2017 l’imputato aveva fornito al pm Caty Bressanelli il nome e il cognome del complice e in aula aveva riconosciuto la foto di Adi (in questo modo era conosciuto l’uomo), che in questo momento si trova in carcere per omicidio. "Il mio assistito ha spiegato che quella sera del 1999, quando diverse persone vivevano in condizioni di degrado dormendo in un cantiere, aveva accompagnato l’amico al quale era stato rubato un orologio - avevas continuato il legale - Adi aveva chiesto di riavere l’oggetto rubato o dei soldi in cambio. Ed è in questo contesto che si è consumata la violenta rapina. Lubjeka ha anche chiarito che dopo quella sera non ha più avuto contatti con questo Adi".
Le due autopsie
L’aggressione, nei confronti dell’albanese classe 1963 e di altre persone, andò in scena il 4 settembre del 1999 in un tunnel nelle vicinanze di via Vecchia per Brescia e l’ex Ss11. La vittima morì il giorno seguente al Civile a Brescia. Per il professore che eseguì la prima autopsia (relazione depositata nel 2002) a causare la morte di Bajram fu una meningite. Per i due dottori che ripeterono l’esame sul materiale biologico del defunto custodito al Civile, invece furono le percosse. Ma in aula, il professore, ha ribadito che quel «pus» (segno della meningo-encefalite) sul cadavere gli altri medici non hanno potuto vederlo.
"L’unico ad aver eseguito l’esame sul corpo è stato il professore Francesco De Ferrari, che ha eseguito la prima autopsia con la dottoressa Mariagrazia Birbes - aveva spiegato l’avvocato difensore - Credo che che la Corte terrà conto di questo. Anche perché vorrei sottolineare che in aula è successo qualcosa di sorprendente: un nipote della vittima si è alzato in piedi e ha detto che l’unico ad aver raccontato la verità è stato proprio l’imputato. Ha spiegato che quando era venuto in Italia per il riconoscimento del cadavere, a lui era stata fornita questa versione". Ma oggi la Corte ha preso un'altra decisione, molto pesante per l'albanese imputato.
La vicenda di Rubjeka
Il 41enne venne dichiarato latitante nell’ottobre di quell’anno e fino al 2004, anno di chiusura delle indagini preliminari, non venne fatto nulla. Proprio come nei dieci anni successivi: infatti solo nel 2014 venne emesso il Mandato di arresto europeo. Peccato che Rubjeka era tornato libero già da otto anni, in quanto uscì dalle prigioni albanesi (dove era finito per altri casi) nel 2006. L’albanese venne catturato nel dicembre del 2016, ma rimase dietro le sbarre molto poco. Infatti, il suo avvocato, dopo aver presentato ricorso al Tribunale del Riesame di Brescia, ottenne all’inizio del 2017 la scarcerazione del suo assistito, che ora si trova libero in Albania.