Lo sfogo

Canton Mombello, i detenuti si sfogano in una lettera

"Non chiediamo di evitare la nostra pena".

Canton Mombello, i detenuti si sfogano in una lettera
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I detenuti del carcere Nerio Fischione più comunemente noto come Canton Mombello di Brescia scrivono una lettera indirizzata alla cittadinanza.

La denuncia

Sono oltre 300 su una capienza di 189 e evidenziano il loro disagio legato al problema del sovraffollamento. La lettera è arrivata dalla  Garante per i diritti dei detenuti, Luisa Ravagnani, e dal presidente del Consiglio comunale, Roberto Cammarata, che hanno deciso di diffonderla.

Battitura

"Sciopero del carrello, battitura, sciopero della fame…stiamo discutendo fra noi e valutando con quali azioni renderci visibili fuori da queste mura, far sentire la nostra voce a chi di solito non la ascolta, ma i dubbi sono molti. Se rifiutiamo il cibo del carrello poi il carcere sarà costretto a gettarlo via e sarebbe uno spreco enorme. In questo momento le persone fuori affrontano ogni tipo di difficoltà, anche economica, e noi ci permettiamo di buttare il cibo? No, questa opzione è sbagliata e, inoltre, da qui dentro non siamo nemmeno in grado di donare questo cibo a chi ne ha bisogno quindi gettarlo via sarebbe un atto di irresponsabilità assoluta. Allora la battitura… tre volte al giorno, tutti insieme, qualcuno fuori ci sentirà. Però se lo facciamo rischiamo di incrinare i difficili equilibri che a fatica in carcere si riescono a mantenere e che preservano tutti, noi e il personale penitenziario, da accadimenti violenti. La battitura dunque sarebbe altrettanto irresponsabile quanto buttare il cibo. Niente battitura dunque".

Manifestiamo Insieme Responsabilmente

"Sciopero della fame, non facciamo del male a nessuno e riguarda solo noi, noi tutti che aderiremo. Però lo sciopero della fame in carcere comporta un’attivazione massiccia dell’area sanitaria che sarebbe costretta a monitorare lo stato di salute di tutti i partecipanti e, quindi, a non essere concentrata solo sulle numerose esigenze che ogni giorno riguardano detenuti fragili e con patologie più o meno gravi. Mettere a rischio i nostri compagni più fragili sarebbe da irresponsabili tanto quanto non prendere il cibo dal carrello o effettuare la battitura. Essere irresponsabili è qualcosa che vorremmo evitare. Non vogliamo far sentire la nostra voce rischiando conseguenze tanto importanti nella vita di tutti. Siamo detenuti ma, a differenza di come spesso fuori ci vedono, non siamo irresponsabili. E allora che mezzi ci restano per chiedere aiuto? L’opinione pubblica è abituata a parlare dei detenuti quando le proteste dentro accadono in modo violento, dandoci quasi l’idea che se non utilizziamo quei metodi nessuno ci ascolterà. Noi però non siamo disposti ad assecondare questa logica, abbiamo bisogno di ascolto e di tanto aiuto ma vogliamo ottenerlo dimostrando responsabilità e maturità. È per questa ragione che abbiamo deciso di sperimentare una forma di manifestazione alternativa del nostro disagio, una manifestazione consistente nel rifiuto consapevole dei mezzi che tradizionalmente i detenuti sono costretti ad usare per far parlare di loro: MIR – Manifestiamo Insieme Responsabilmente. Non faremo nulla di irresponsabile qui dentro ma chiediamo fortemente di essere ascoltati e considerati su quanto diremo di seguito".

Il problema del sovraffollamento

"Il sovraffollamento non è solo una questione di numeri e di metri quadri stabiliti a livello europeo e controllati (con più o meno attenzione) dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: il sovraffollamento è una questione di uomini e donne accatastati in spazi non dignitosi e costretti a condividere ogni attimo della propria esistenza, per lunghi periodi, con un eccessivo numero di altri uomini e donne nella medesima condizione; Il sovraffollamento è una questione di mancanza di prospettive/alternative per il futuro, è l’eliminazione della speranza che dopo il carcere ci possa essere una vita nuova, positiva, per noi, per le nostre famiglie ma anche per la collettività intera verso la quale sappiamo di avere un debito, almeno in termini di fiducia. Perché sovraffollamento vuol dire non avere sufficienti figure educative di riferimento per ciascuno di noi, con le quali poter intraprendere un percorso di cambiamento; il sovraffollamento è una questione di assistenza sanitaria che non può raggiungere tutti nel momento del bisogno e che deve avere a che fare anche con soggetti che non dovrebbero essere gestiti in carcere perché probabilmente destinati a strutture e servizi differenti, meglio rispondenti alle loro specifiche necessità, tuttavia anche queste non sempre disponibili all’accoglienza perché già stracolme; il sovraffollamento è una questione di colloqui e telefonate con le famiglie che faticano ad essere gestiti adeguatamente e nel rispetto dei diritti di tutti, soprattutto dei minori coinvolti; il sovraffollamento è una questione di attività lavorativa inframuraria, disponibile solo per pochissimi di noi, lasciando gli altri a pesare sull’economia delle famiglie all’esterno o totalmente indigenti, con un rilevante debito da pagare allo Stato una volta terminata la pena (siamo l’unico paese europeo che grava i detenuti delle spese di mantenimento in carcere e che a fine pena chiede agli ex detenuti di pagare somme che, se avessimo o avessimo avuto, magari non ci avrebbero portato a delinquere) Il sovraffollamento è una questione di forniture di beni igienici e di pulizia che il carcere non riesce a sostenere per tutti e che, senza il contributo di qualche persona illuminata, non riusciremmo ad avere Il sovraffollamento è questo e molto altro ma, soprattutto, è una questione di dignità ferita, violata, a volte distrutta. Il sovraffollamento, in ultimo è una questione di esistenze spezzate, di uomini e donne che si tolgono la vita e che non dovrebbero costituire solo statistiche (che magari a volte attirano anche l’attenzione) perché hanno nomi e cognomi, famiglie ferite e tanta disperazione alle spalle".

"Non chiediamo di evitare la nostra pena"

 

"Noi detenuti siamo stanchi di parole, proposte, promesse che, almeno negli ultimi dieci anni non hanno portato a nulla. Nello stesso tempo sappiamo bene di essere l’ultima categoria a suscitare l’interesse di qualcuno e, probabilmente, anche l’ultima per la quale qualcuno decida di alzarsi e venire ad incontrarci, a vedere come viviamo. Non vogliamo però visite che servano solo a rattristare, nella migliore delle ipotesi, chi entra –di questo tipo ne abbiamo vissute molte, forse troppe –ma desideriamo incontrare qualcuno che tornando nel mondo libero e confermi che si è arrivati al capolinea, che è il momento di risolvere questa situazione insostenibile una volta per tutte, perché la dignità di ogni uomo ha pari valore, indipendentemente dal suo stato di libertà o prigionia. Almeno questo è quello che ci hanno sempre detto, quello che è scritto nella nostra Costituzione. Noi detenuti che utilizziamo questa nuova forma di protesta – la neonata MIR – non chiediamo di evitare la nostra pena ma urliamo a gran voce, affinché qualcuno ci senta e sappia ascoltarci, che vogliamo scontarla con dignità (concetto espresso anche dal Presidente della Repubblica nel suo secondo discorso di insediamento) e con la possibilità di tornare non solo liberi ma migliori".

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