SILENZIO, PARLA OMAR PEDRINI

SILENZIO, PARLA OMAR PEDRINI
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Parlare di Omar Pedrini senza partire dalla città natale è impossibile. Ed è proprio a Montichiari, davanti a un calice del suo vino preferito, il Lambrusco, che Omar ci racconta di sè, prima, durante e dopo la musica, sua fedele compagna di vita.

Omar Pedrini nasce a Brescia il 28 maggio 1967. Geneticamente predisposto alla musica, è in prima ginnasio che incontrerà i membri di una delle band fondatrici del rock italiano. Prima «Sigma six», poi «Precious Time» e alla fine «Timoria», grazie al «Deskomusic», un concorso scolastico indetto dalliceo «Arnaldo» di Brescia, principale se non unico momento di incontro per complessi debuttanti. E' qui che dallo scioglimento di varie compagini si profila il futuro progetto Timoria con Omar Pedrini chitarrista, Francesco Renga, Diego Galeri alla batteria, Enrico Ghedi alle tastiere e Pietro Paolo Pettenadu poi sostituito da Davide Cavallaro.
La vittoria al «Deskomusic» del 1986 spiana il percorso. Si aprono infatti in seguito alla vittoria, le porte della sala di registrazione con il primo singolo "Signor no". Il 1987 è l’anno della svolta, l’occasione perfetta si presenta al «Rock Targato Italia», un concorso che mette in palio per i vincitori un provino con la PolyGram. E’ con questa ennesima conferma che i Timoria iniziano la scalata al successo, raddoppiando le esibizioni e moltiplicando i fan. Nella primavera del 1990 arriva il primo album "Colori che esplodono" e inizia il primo vero tour in 35 città italiane.

Cosa ti ha dato Brescia e in che modo ha inciso su tutto il resto?
«Brescia è la città dove sono nato, dove sono cresciuto e dove per la prima volta mi sono avvicinato alla musica. E’ al liceo classico di piazzale Arnaldo che ho conosciuto quelli che poi sono diventati i miei “colleghi”. Posso dire che i “Timoria”, così come li avete conosciuti, sono nati lì, tra le mura e banchi di quell’istituto. Era il primo giorno di scuola, ai tempi gli alunni venivano fatti sedere in ordine alfabetico, io mi ritrovai a fianco ad un certo Carlo Alberto Pellegrini. “Tu cosa fai, cosa ti piace?” - gli domandai - “mi piace la musica e suono- rispose lui”. Ovviamente fu amore a prima vista». Possiamo dire che lì è nato tutto, prima i “Sigma Six”, diventati poi “Precius Time” e anni dopo, “Timoria”, ma tutto partì da lì». Brescia con tutta la sua provincia, rimane comunque casa mia, è qui che ho ancora molti affetti ed è in questi paesi di provincia, come Montichiari, Calcinato, Urago, che la mia famiglia ha preso forma e io stesso insieme a loro. Mio padre vive ancora in zona, sul lago di Garda, a San Felice e quando posso torno a Brescia sempre carico di buone emozioni».

Come Brescia, anche la tua famiglia ha avuto un ruolo importante nella tua formazione, personale e musicale. In che modo?
«Si, sono figlio di artisti “mancati”. Il mio bisnonno, operaio per necessità, ma musicista per passione, era un liutaio, costruiva mandolini ed era maestro di clarinetto. Chiaramente nel tempo libero, perché a quei tempi, l’esigenza era “portare i soldi a casa”. La nonna raccontava che in casa era sempre un concerto, la musica non smetteva mai di farci compagnia perché ogni sera il nonno riceveva gli studenti del corso di musica a casa nostra. E’ da lì che è nata la frase che è poi diventata una massima per me e che conserverò per tutta la vita, “con la musica non sarai mai solo”. Non solo il bisnonno era artista, anche la nonna Nina, detta la nonna matta, proprio per l'anticonformismo che la contraddistingueva. Era una donna e in quegli anni l'indipendenza femminile non era un concetto esistente e sul quale si potesse discutere. Anche mia mamma aveva la musica nel sangue. Amava cantare, la sua voce mi cullava e il ricordo continua a farlo tutt’ora, anche se lei non c’è più. Cantava sempre, è questa l’immagine più bella che ho di lei. Ricordo come se fosse ieri quando prendeva in braccio me e mia sorella, canticchiando uno dei suoi motivetti preferiti, mentre indossava quei gonnoni a fiori che si usavano a quel tempo. E' con mia madre che ho visto i migliori concerti, da Vecchioni, a De Andrè, a Guccini».

Quanto ha contribuito questo imprinting musicale?
«Nasco da una famiglia in cui l'arte era tutto. Non solo la musica, ma anche la poesia. Mio padre era infatti un classicista. Ancora oggi traduce d'un fiato dal latino e dal greco e non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto studiare. Non era infatti tra le mie “corde” lo studio, ma quando mi iscrissi alla quarta ginnasio del classico di Brescia, già masticavo bene le basi di latino e greco. Quella formazione classica mi è stata fondamentale, anche se a 15 anni pensavo già ossessivamente alla musica. E' proprio grazie all'insistenza di papà che mi volle tra i banchi del liceo più storico della città, dove insegnò per moltissimi anni lo stesso Vecchioni, che ebbi la fortuna di conoscere quello che poi diventò il mio primo “socio”, di quell'impresa che ci avrebbe portati, in maniera differente, in alto. La musica è un tesoro che ho ereditato e che ho tramandato ai miei due figli, Pablo che ha già una sua band ed Emma Daria, che già si diletta con diversi strumenti. Entrambi sono musicisti nell’anima».

La nascita del gruppo, com'è avvenuta?
«E' nato si può dire tutto il primo giorno di scuola. IV ginnasio, liceo Arnaldo. Pellegrini mi disse che suonava e che amava la musica. Da allora fu per così dire amore. Nei giorni successivi sono iniziate le selezioni per trovare gli altri membri della band. Fondiamo prima i “Sigma six” e poi con l'arrivo di Enrico Ghedi, l'anno dopo e con il quale siamo ancora amici abbiamo iniziato a cavalcare l'onda».

C'è stata una prima esibizione?
«Diciamo che ai tempi tutti si correva per partecipare al «Deskomusic». Un concorso al quale partecipavano i gruppi emergenti della provincia, legati agli istituti superiori. Un concorso in cui siamo arrivati non solo sul podio ma primi con i “Sigma Six”. Ha rappresentato per molti versi la nostra svolta. Per questo abbiamo deciso di partecipare l'anno successivo come “Precious Time”. Era il 1986».

Rock emergente e rock italiano, come avete iniziato a scrivere la storia?
«Il rock italiano così come lo conosciamo ora non esisteva. Intanto maturava in me l'esigenza più simile ad un urgenza di scrivere in una lingua che i miei concittadini prima, e connazionali poi, potessero capire. Una musica che fattasi poesia potesse essere ascoltata ma soprattutto capita. L'idea di scrivere in italiano parte proprio da qui, da quest'impeto di comunicare ed essere compresi. Che è un po' tutta la filosofia stessa della mia vita. Stavamo facendo la storia del rock, ma non lo sapevamo».

Sigma Six, Precious Time, e poi Timoria. Perché questa evoluzione?
«Brescia non è mai stata particolamente tenera con la musica e tanto meno con i musicisti e gli artisti. Città industriale, operativa, fatta di sudore e fatiche. La musica non era tra i fondamentali ma anzi, era una pura perdita di tempo e di conseguenza il musicista era destinato a fare musica per diletto e non per professione. Ancora oggi confesso di sentirmi decisamente più sostenuto dalla gente, perchè le istituzioni, soprattutto bresciane, non mi hanno mai particolarmente sostenuto. Con Giovanni Ferrario, musicista, produttore e compositore, si era deciso che l'alternativa fosse solo una, andare via da Brescia. Arriva proprio da questo pregiudizio storico la scelta di cambiare il nome in “Timoria”. Nel 1987 decidiamo che è giunta l'ora di svoltare, a partire dal nome. Ho pensato a “Timoria”, termine derivato dal greco e che porta con sè un duplice significato, timore, ma soprattutto rivendicazione. Un desiderio di rivalsa che diventa urgente, soprattutto nei confronti di un panorama musicale in fervente crescita e nei confronti di chi ha sempre storto il naso di fronte ai musicisti. Il 1987 è l'occasione della vita. Con il “Rock Targato Italia”, il cui premio in palio è un provino con la “Polygram”, i “Timoria” sfiorano i primi successi. Dopo il primo posto, iniziamo a suonare davvero».

Cosa rappresentava il primo disco?
«Prima di tutto un'enorme soddisfazione. Ma eravamo tutti obiettori di coscienza. Il contenuto dell'album e anche le sue mire, erano principalmente antimilitariste. Il singolo “Signor No” cominciava a girare fra gli addetti ai lavori ma eravamo ancora lontani dall'obiettivo e dall'essere una band salda e completa».

Com'era in quegli anni il panorama bresciano, al di là della cultura bresciana votata alla fatica fisica?
«Difficile. Andavano le cover, un po' come adesso. La “Polygram” intanto ci stava tenendo d'occhio per tarare le potenzialità, e a quanto pare il singolo stava funzionando. Il contributo effettivo è arrivato anche da “Radio 105” che iniziò a mandare in onda il pezzo 5 o 6 volte al giorno. Io in quel periodo frequentavo l'università a Milano e tra un appello e l'altro andavo a caccia di locali ma soprattutto di giornalisti che potessero scrivere di noi come gruppo emergente bresciano. Mi infilai perfino nella redazione del Corriere della sera per poter parlare con il giornalista Mario Luzzatto Fegiz. In settimana studiavo, cercavo locali e contatti per organizzare serate, nei fine settimana suonavamo, sia a Milano sia a Brescia, dove nel frattempo si stava anche creando un massiccio pubblico che ai concerti chiedeva nostre canzoni. Non più cover, ma pezzi nostri. Non eravamo i più bravi, ma sicuramente siamo stati i più determinati, quello si, soprattutto per la capacità di sfondare i pregiudizi in un periodo storico in cui la musica era solo di un certo tipo».

Era difficile allora, e adesso? Lo è ancora grazie al ventaglio di mezzi possibili o la situazione è satura?
«La fatica per i gruppi emergenti c'è ancora, eccome. Brescia ha un'altissima percentuale di gruppi “indie”. Possiamo parlare sicuramente di saturazione dei canali e dei mezzi. Dopo la grande “sbornia” degli anni ‘90 con gruppi quali i “Litfiba” e i “Timoria”, la discografia ha invertito le tendenze. Ora non sono più il testo, la poesia, l'anima di una band ad essere il valore necessario che conduce al successo, ma la voce. Siamo nell'epoca dei vocioni, del “se hai una voce bella, non importa che il testo lo scriva qualcun'altro”. E il problema è proprio qui, non comporre un testo, significa non sentirlo. E questo vuoto non può che riversarsi poi sulle esibizioni. Per alcuni versi si può dire che la tecnologia e l'era web abbiano in qualche modo agevolato. Chi è bravo, se ha i mezzi, può comporre e incidere in modalità autonoma, buttare su rete e fare visual stando seduto a casa».

Talent, concorsi e giudici. Cosa ne pensi?
«Lasciamo stare. Anche noi abbiamo partecipato a Sanremo, partecipazione per la quale abbiamo ottenuto diverse critiche dai puristi, ma era un passaggio necessario. Tra i risultati di quella presenza, l'inserimento del premio alla critica per la sezione giovani, presente ancora oggi nel festival. Quindi a qualcosa è servito. I talent di oggi sono colmi di grandi voci, ma peccano in arte. Tante belle voci, dal punto di vista tecnico, ma vuote. Nessuno di loro, o quasi, ha composto inediti e ha quell'anima artistica necessaria per trasmettere. La musica è messaggio, non riproduzione meccanica di suoni. Ora la musica è prevalentemente voce. Una volta si cantava e suonava e l'arte stava proprio in quello spazio, ora non esiste quasi più “roba” da suonare».

Ti hanno mai chiesto di partecipare in qualità di giudice a qualche talent?
«No mai, forse sanno che farei fatica a gestire le dinamiche di un programma simile».

Timoria e generazione di mezzo. Cosa significa?
«L'epoca in cui ci siamo inseriti era di mezzo. In tutti i settori e piani. Dalla politica, alla cultura hippy, dall'analogico al digitale. La nostra generazione è quella del «Senza Vento» in cui tutto è in continua evoluzione, pronto a modificarsi e rinnovarsi, dove c'era spazio per costruire tutto e cambiare tutto».

Cos'è successo dopo?
«Nel 1990 ero il chitarrista della più importante rock band italiana: i Timoria. Concerti, fama, soldi e seguito nazionale. Ma sul più bello tutto va a pezzi. Nel 2002 lo scioglimento e l’inizio della carriera di solista. Il sogno si frantuma tre mesi dopo la partecipazione a Sanremo nel 2004 dove conquisto il premio della Critica. Il resto lo conoscete, l'amore, la salute, la carriera, tutto è messo in discussione. Ma cerco di reinventarmi una vita. Re-inizio con la Rai come autore e conduttore di un programma dedicato ai gruppi emergenti. Passano diversi anni ma la musica rimane una fissazione. E' con sky e il programma “Gamberock”, un programma che unisce cucina, enogastronomia, musica e arte, che riparto da zero e ricomincio anche a lavorare ad un nuovo disco, La capanna dello zio Rock dove metto tutto me stesso, il mio meglio».

E ora?
«Dopo il matrimonio con Veronica Scalia e la nascita di figlia Emma Daria, nel 2014 un'agenzia inglese mi da la possibilità di ricominciare, dopo anni di silenzio discografico, torno in scena. Nel maggio del 2014 ricevo il “Fim Award” come miglior artista rock italiano alla “Fiera Internazionale della Musica di Genova”. Ma ecco un altro pit stop forzato che rallenta i piani. Ora faccio la spola da Milano - Brescia e Londra per il nuovo disco che vedrà la luce nella primavera del 2017, parallelamente uscirà la mia prima biografia scritta da Federico Scarioni edita da Chinaski».

di Marika MARENGHI


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