Don Renato, il missionario all’ombra dei ciliegi in fiore
Quasi nessuno può restare immune all’affascinante mix fra antico e moderno che caratterizza il Giappone, dove grandi città in continuo fermento ed evoluzione convivono insieme a tradizioni, valori e usanze secolari. Il ghedese Renato Filippini, classe 1970, è stato contagiato fin da subito dal proverbiale fascino di questo Paese, tanto da decidere di viverci per il resto della sua vita e dedicarsi alla sua vocazione.
«Nel 1982, a soli 12 anni, dopo aver conosciuto i missionari saveriani, decisi di entrare nella loro comunità di Brescia. - Ha ricordato Filippini, che da quasi vent'anni opera come missionario in Giappone - L’occasione di tale scelta fu una lettura durante il campeggio estivo organizzato dai saveriani delle avventure del gesuita Francesco Saverio che nel cinquecento viaggiò in Oriente (Indonesia, India, Giappone). Da grande volevo diventare come Saverio: viaggiare in estremo Oriente per proporre e condividere lo stile di vita del vangelo vissuto da Gesù».
Negli anni Novanta i saveriani avevano quattro centri di formazione al sacerdozio e alla vita missionaria sparsi nel mondo con candidati provenienti da diverse nazioni. Nel 1992, terminati gli studi superiori, dopo due anni di formazione base, chiese di continuare la preparazione a Chicago, negli Stati Uniti, per vivere in un contesto diverso dalla sua cultura di origine e a contatto con persone di altre formazioni. Solo dopo cinque anni di studi teologici, nel 1997, tornò in Italia per l’ordinazione sacerdotale e pochi mesi dopo fu inviato in Giappone, coronando finalmente il suo sogno.
«Ancora oggi mi sento privilegiato e pieno di gratitudine per aver vissuto diciassette anni in questo Paese – ha raccontato il missionario che ha trascorso gli ultimi tre anni in Italia per conseguire la laurea magistrale in teologia e non si è fatto mancare qualche breve visita al suo paese natale – Dopo aver completato un corso di studi a Roma, dallo scorso febbraio sono tornato in terra nipponica. Non poca gente spesso mi chiede, con un tono misto tra il preoccupato e il dubbioso, se non sia difficile vivere in Giappone. Certamente la lingua è difficile da imparare perchè non è costituita dall’alfabeto latino, ma da altri due alfabeti sillabici. La difficoltà maggiore è l’uso degli ideogrammi (di origine cinese) al posto delle parole. Gli ideogrammi sono disegni che rappresentano l’idea che esprimono e sono migliaia, non una ventina come le lettere dell’alfabeto latino».
Un mondo totalmente diverso da quello cui siamo abituati, in cui il prete ghedese si è tuffato con tutto se stesso raggiungendo risultati non indifferenti in sinergia con le altre comunità religiose del territorio. «Mi trovo in Giappone non per motivi turistici o per un breve periodo di tempo - ha sottolineato- Vivo in Giappone come missionario ed è bene aggiungere subito che lo scopo della missione non è solo e primariamente aumentare il numero dei battezzati col rischio del proselitismo. Papa Francesco lo ha espresso bene nel documento “La gioia del vangelo”: «la chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione». Insieme ai cristiani delle parrocchie di Kumamoto, Kagoshima, Takamatsu di cui sono stato responsabile e quella presente di Taman, conduciamo la nostra vita nella società insieme agli altri giapponesi. Attraverso la nostra presenza e modo di rapportarci tra noi e gli altri, testimoniamo lo stile di vita fondato sui valori per cui è vissuto e per cui è stato condannato a morte Gesù: inclusività, accoglienza e perdono, in armonia con Dio, il mondo e se stessi. Come cristiani godiamo di grande rispetto da parte della società. Per noi è una modalità ordinaria lavorare insieme, credenti e non credenti, cristiani e buddhisti per un fine comune a beneficio dei meno fortunati, o a vantaggio della società».
La percentuale di cattolici in Giappone si aggira attorno allo 0,3%. Basti pensare che la sola cittadina di Tamana conta una popolazione di oltre sessanta mila abitanti, di cui un centinaio cattolici. Per chiunque sia interessato ad un’esperienza positiva di immersione culturale in un paese estero, il Giappone, sembra davvero la meta ideale. «I giapponesi sono molto gentili e pazienti, la situazione sociale di sicurezza è ottima, non ci sono furti o imbrogli a danno dei turisti. Hanno un forte senso sociale e di responsabilità, sono attenti e rispettosi dell’altro. Per esempio, è alquanto raro sentire su un autobus la conversazione al cellulare di qualcuno. Se lo fanno portano una mano alla bocca per limitare il disturbo a quelli attorno. Un’esposizione culturale non si limita allo spostamento geografico, ma si esprime e sperimenta nell’incontro con le persone locali ricordandoci che i diversi siamo noi pechè a casa loro».