Alitalia, 5 ragioni dietro la crisi
È la terza volta che Alitalia si trova sull’orlo del burrone, dopo la prima crisi del 2007-’08 (alleanza con Air France), quella più recente del 2013-’14 (alleanza e quota di minoranza a Etihad). Ma questa volta è molto difficile saltare al di là del burrone. I numeri e i trend hanno una forza incontrovertibile. In sostanza Alitalia non ha futuro, e se riuscirà a alzarsi ancora in volo sarà qualcosa di molto diverso da quella che è stata sinora. Proviamo a capire la crisi infinita di Alitalia in cinque punti.
1) La rinuncia agli hub del nord
Uno dei grandi errori industriali di Alitalia è stato l’abbandono del nord Italia, con la scelta nel 2007 di rinunciare all’hub di Malpensa. Alitalia ha detto così no al mercato più ricco, con il risultato che oggi dall’aeroporto varesino ha solo tre rotte intercontinentali con la compagnia di bandiera (Tokyo, New York e Abu Dhabi) e continua a guadagnare viaggiatori con le altre compagnie: nei primi mesi del 2017 è al +22%. I viaggiatori del nord sono stati catturati tutti da compagnie straniere. Addirittura Alitalia è costretta a portare viaggiatori da Linate a Parigi e Amsterdam “rubandoli” ai propri voli intercontinentali da Roma. Se Alitalia chiudesse, Malpensa e Bergamo quasi non se ne accorgerebbero. Per Linate sarebbe un problema lievemente maggiore, ma solo a breve termine: sul tavolo delle autorità aeroportuali ci sono oltre mille richieste di altre compagnie per volare nel city airport milanese.
2) La concorrenza sulla tratta Milano-Roma
Sarebbe invece un ulteriore disastro per Roma. In questi anni Alitalia, oltre alla concorrenza delle compagnie low cost, ha dovuto subire la crescita imperiosa dell’alta velocità, che ha sostanzialmente dimezzato il traffico sulla rotta che rappresentava la gallina dalle uova d’oro per la compagnia. Il Milano-Roma è passato dai 2,4 milioni di passeggeri alla metà. E questo mentre il numero di viaggiatori in assoluto su quella rotta è sempre stato in grande crescita.
3) La logica del low cost vince
Alitalia non si è resa conto che non era possibile reggere alla concorrenza delle low cost, che hanno una logica industriale completamente diversa e che soprattutto hanno capito una cosa: l’importante è far viaggiare le persone, non spremerle con tariffe fuori mercato. Così le low cost si sono rivelate delle grandi opportunità per territori dimenticati (vedere il successo delle rotte su Comiso e Crotone), al punto che per avere un volo Ryan Air le amministrazioni sono disposte a pagare la compagnia. Alitalia invece ha perso persino il volo su Reggio Calabria… Ma sono stati i viaggiatori a decidere: sulle rotte interne ormai vince solo la logica del low cost.
4) Un’impronta politico-romana
Alitalia non si è mai liberata da un’impronta politico-romana che ne ha deciso i destini. Neanche la gestione priva di Cai, con Montezemolo presidente, si è smarcata da questo modello alla fine assistenzialistico. Lo hanno capito anche i sindacati, che hanno tifato per l’approvazione dell’accordo, mentre invece piloti e hostess sono andati diritti verso la strada che ora porta ala commissariamento.
5) Non cambia nulla per l’Italia
Non è vero che un Paese non può fare a meno di una compagnia di bandiera. I casi Sabena (Belgio) e Swissair (Svizzera) lo dimostrano. Sono stati fallimenti celebri che non hanno comportato particolari ricadute sull’economie e sui trend di sviluppo delle nazioni. Alitalia ha pochissimo peso sui flussi turistici italiani, visto che lavora al 70 per cento sul medio-breve raggio, che è proprio il terreno di conquista delle low cost. Le altre compagnie di bandiera hanno proporzioni esattamente opposte, con il 70 per cento di ricavi dalle rotte lungo raggio. Inoltre i trend turistici sono inversamente proporzionali al declino di Alitalia: crescono mentre lei scende.