Quanto affetto per la «comàr» Cleonice Alboini

Quanto affetto per la  «comàr» Cleonice Alboini
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Quando è mancata, il 18 agosto del 2007, la sua casa è diventata scenario di un via vai continuo di uomini e donne, persone comuni arrivate per dare l’ultimo saluto a Cleonice Alboini, la «comàr», come la chiamavano tutti, la levatrice che ne aveva messi al mondo tanti di coloro che venivano a porgerle l’ultimo commosso addio.

Una professione scelta per profondo sentire e portata avanti con grande coscienza anche a discapito talvolta di sacrifici familiari.

«Mia madre si era diplomata il 2 ottobre del 1942 alla clinica universitaria Mangiagalli di Milano» racconta la figlia Fernanda Bottarelli «Era originaria di Gazzoldo degli Ippoliti, dove era nata il 9 dicembre del 1921, anche se, successivamente, si trasferì con la famiglia a Montichiari perché i genitori, Giovanni Alboini e Ida Busi, in paese avevano preso in gestione il mulino che sorge in via Pietro Zocchi Alberti. Appena diplomata, nel bel mezzo del conflitto mondiale, tornò al paese natale per svolgere la sua attività come libera professionista. Per assistere ai parti doveva girare le campagne intorno al paese: i bambini nascevano in casa e l’ospedale era proprio l’ultima spiaggia quando il parto si presentava molto difficile e poteva mettere in difficoltà la madre e il bambino. Succedeva spesso che nelle cascine venisse accompagnata dai soldati tedeschi che la rispettavano sempre molto per il lavoro che svolgeva.

Nonostante la sua giovane età narrava di non aver mai temuto i tedeschi ma piuttosto quando sentiva in cielo il rombo inconfondibile di “Pippo”, il ricognitore americano che seminava panico e morte. Il più grande ostacolo per la sua professione non erano i tedeschi ma piuttosto le suocere con le loro superstizioni e usanze che le impedivano spesso di svolgere tranquillamente il suo lavoro, sottolineandole magari che era troppo giovane ed inesperta o spingendo le nuore a svolgere lavori pesantissimi fino alla fine del tempo di gestazione. Assisteva le partorienti a lume di candela o addirittura al buio e più di una volta il bambino appena nato, lavato e asciugato veniva deposto in un cassetto di un comò vicino al letto della puerpera.

Alla fine degli anni Quaranta, mia madre sposò mio padre Carlo Bottarelli. Lo aveva conosciuto a Montichiari da ragazzina e non si erano mai persi di vista: Montichiari divenne così la sua città del cuore. In paese a svolgere la professione erano in quattro: Malvina Tisi, la Conti, la “Cèzöla” e lei ma vi erano zone dove di levatrici non se ne vedeva l’ombra. Tra queste la Valvestino dove per parecchi mesi mia madre si trasferì per svolgere il suo lavoro: certamente quei soldi in più facevano comodo in famiglia ma a muoverla fu anche lo scrupolo di coscienza nei confronti delle donne che dovevano mettere al mondo dei figli in una terra sprovvista di tutto e quasi isolata dal mondo. Noi figli (Gigliola, Fernanda e Guido) la raggiungemmo con mio padre nel periodo estivo a Turano, sede del Comune, dove fummo accolti con grande affetto, un affetto che lei aveva acceso facendo nascere i bambini del posto.

Qui si vedevano donne che lavoravano fino agli ultimi giorni della gravidanza, portando pesantissime gerle sulle spalle e sulla testa e magari due o tre bimbetti già attaccati alla sottana. La quarantina non era di certo rispettata e dopo pochi giorni ci si rimetteva al lavoro. Tornata a Montichiari, dagli anni Sessanta in poi si alternò con le colleghe per tre mesi a testa in ospedale, affiancando il dottor Varoli e lavorando con turni di 24 ore di seguito. Qui aveva uno stipendio assicurato, era la signora levatrice ma le mancava quel contatto umanissimo e caldo che caratterizzava il lavoro “dé la comàr”. Fino alla morte, anche quando la malattia l’aveva segnata, l’amore per i bambini non la abbandonò mai, per lei furono sempre un profondo richiamo che nasceva dal cuore e che dal cuore passava nelle sue braccia». 


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