Posti fantastici e dove trovarli: Varanasi, la città della luce

Posti fantastici e dove trovarli: Varanasi, la città della luce
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Di Varanasi resta addosso l’umidità, le strade strette e i tempietti a punta: rossi, gialli e arancioni. Resta l’odore della cenere e degli incensi e quelle barchette lunghe ormeggiate sulla terra marrone, ai piedi del Gange, a centinaia. Salpano tutte la sere cariche di turisti. Gli indiani restano a riva, vicino ai roghi.

Varanasi è un immenso lungofiume a gradoni, i ghat. Quaranta, cinquanta scale prima di arrivare ai templi, tutti diversi, uno dopo l’altro, ogni cinquanta metri. Dall’alto ti guardano statue di Ganesh, Brahma, Shiva e Visnu: sorridono seduti a gambe incrociate. Sui gradoni dei ghat i sari delle donne asciugano al sole, i ricami dorati imbevuti dell’acqua sacra del Gange.

Ci sono monaci buddisti che raccontano la giornata al vicino, donne che fanno il bucato, uomini intenti nelle abluzioni, venditori di shampoo e dentifrici monodose in piedi di fronte ai loro banchetti. Ogni tanto passano gianisti nudi votati al digiuno, una delle principali manifestazioni del loro ascetismo. Qualche volta compare un venditore di chai, un thé caldo e dolcissimo.

Ogni anno sono circa un milione i pellegrini che visitano Varanasi. Gli Induisti ci vengono a morire, sicuri che dalla città santa andranno direttamente nel regno dei cieli, risparmiandosi il ciclo delle rinascite. Questa la promessa per chi muore qui, le ceneri disperse nel Gange dopo esser stato bruciato in una pira. Solo a cinque categorie di morti, infatti, è concesso di finire nel fiume senza passare per il fuoco: bambini, donne incinte, uomini morsi dal cobra, lebbrosi e santoni. A volte si vedono i loro corpi passare sull’acqua, accanto a chi fa il bucato, beve, prega.

Varanasi è una città che non dorme: le cerimonie funebri avvengono di giorno e di notte, sette giorni su sette. Nei ghat che ospitano i crematori i corpi bruciano sopra cataste di legna, in un rogo acceso dal primogenito del defunto, rasato e vestito di bianco. Nell’induismo dove vita e morte si incrociano nei cicli di reincarnazioni, i corpi dei morti non sono nascosti come nelle culture occidentali: bruciano in pieno giorno, sotto gli sguardi, non disperati ma rassegnati, di parenti e fedeli. Sulla riva del Gange tanti sono anche gli “ostelli della morte”, case dove le persone restano aspettando di morire, in prima fila nella strada verso l’aldilà.

Un’atmosfera macabra? Tutt’altro. Per gli indiani la morte è naturale, e lo è ancor di più in una città sacra che non viene considerata appartenente alla terra. Fondata dal dio Shiva, Varanasi è un santo “luogo di attraversamento” che permette ai fedeli l’accesso al divino.
I turisti spesso arrivano di ritorno da Bodh Gaya, dopo aver visto il ficus sotto il quale si narra che il Buddha raggiunse l’illuminazione. Vengono in treno, come deviazione nel percorso verso Nuova Delhi o Calcutta: undici, dodici ore di viaggio a dimostrazione che l’India più che uno Stato è un continente. Un mosaico di religioni dove la fa da padrone l’Induismo, praticato da più dell’80 per cento della popolazione, contro il 14 per cento di Musulmani, il 2 per cento di Cristiani e circa l’1 per cento di Sikh, Buddisti e Gianisti.

A Varanasi non si arriva mai per caso: ormai inserita nei viaggi più raffinate, resta però ancora fuori dai percorsi prettamente turistici. Lontana dalle fortezze dei Maharajas del Rajastan del Nord così come dai corsi yoga e dagli ashram del sud, Varanasi resta sacra, la città della luce dove vita e morte si incrociano nei continui fuochi dei roghi.


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