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Il secolo di Nani: “Vi racconto i miei 102 anni”

La storia della decana, la donna più anziana della città: nata il 17 ottobre del 1919, ultima di 8 fratelli, ha ripercorso una vita fra povertà, lavoro e la gioia della famiglia

Il secolo di Nani: “Vi racconto i miei 102 anni”

di Emma Crescenti

Si chiama Domenica Bertoni ed è nata il 17 ottobre del 1919. Un inizio conciso per una storia che di breve non ha proprio nulla dal momento che Nani (così la chiamano tutti) con i suoi 102 anni portati egregiamente è la donna più anziana di Manerbio.

La gioventù

La seconda guerra mondiale, la povertà e il dolore, ma anche la ripresa, il boom economico, la rinascita di uno Stato e del suo popolo. Per molti sono solo nozioni apprese sui libri; per lei, per Nani, sono ricordi.

«Sono nata a Manerbio alla cascina Campostrini Piccoli dei signori Ziletti (oggi il Palasturla, ndr), un anno dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e nel mezzo della pandemia Spagnola – ha raccontato la decana – Ero l’ultima di otto fratelli (prima di me, sono venuti al mondo Giovanni, Francesco, Giuseppe, Santa e il suo gemello Emilio vissuto solo alcuni mesi, Maria ed Emilia) e proprio loro, essendo io la più piccola, mi hanno dato il mio soprannome».

A sette anni ha iniziato a frequentare la scuola elementare. Una nuova avventura per i piccoli di oggi, un’impresa per i figli dei contadini che abitavano nelle campagne.

«Per arrivare in paese percorrevo a piedi quasi quattro chilometri anche sotto le intemperie – ha continuato – A mezzogiorno, se i miei genitori avevano i soldi per pagare la refezione, andavo al vecchio asilo in via Solferino dove in uno stanzone c’erano dei tavoli di legno con dei fori in cui erano incastrate le ciotole di alluminio già colme di minestra o di riso. Accanto, mezzo panino. Nessuno fiatava, stavamo tutti zitti e buoni, fermi come soldatini, perché al terzo richiamo sarebbe arrivata in testa la canna di bambù. Finito il pranzo si giocava una mezz’oretta nel cortiletto, poi le maestre ci riaccompagnavano alla scuola, in via Dante, e al termine della lezione pomeridiana facevo ritorno a casa. Altri quattro chilometri a piedi con gli zoccoli. D’inverno, se c’era la neve, si formava uno strato alto e duro sulla suola e scivolavo: allora li toglievo e camminavo con le calze di lana fino a casa. Arrivavo infreddolita e sfinita».

La vita in campagna fra la povertà e il senso di comunità

Niente stufe, men che meno caloriferi: allora ci si scaldava tutti intorno al camino. Sul gradino davanti al fuoco, la pentola annerita della minestra con cui Nani e i suoi fratelli riempivano la propria scodella: altro non c’era e le castagne cotte, preparate quando gli alberi si tingono di rosso, erano l’eccezione. Il freddo della miseria, delle ristrettezze era però reso più tiepido da quel senso di appartenenza, di comunità, che caratterizzava la vita nella campagne, quando le cascine erano i «condomini» di oggi.

«Nelle sere d’inverno tutte le famiglie del cascinale si riunivano nella stalla, al caldo. Le donne si sedevano in cerchio intorno a una lucerna, alcune sferruzzavano, altre cucivano o rammendavano; le ragazze da marito preparavano la dote, portando con sé, per tutto l’inverno, le lenzuola del corredo da ricamare. Noi bambini ci addormentavamo ai piedi delle mamme, seduti sulla paglia. Gli uomini si appartavano, chiacchierando del più e del meno. Alcune volte giungeva un cantastorie che attirava l’attenzione di tutti, ma in particolare dei bambini».

Poi il trasloco (rigorosamente nel giorno di San Martino) dalla cascina Campostrini alla Fedrizze, al Monastero. Sul carro pagliericci imbottiti con le foglie secche delle pannocchie, alcune panche, la credenza, la madia per riporre la farina bianca e gialla, una gabbia con quattro o cinque galline o due conigli, due o tre sacchi di granoturco e altrettanti di frumento. «Questo era tutto ciò che possedevamo». Il tempo passava, la vita andava avanti, gioie e dolori si susseguivano al cambiare delle stagioni: il matrimonio dei fratelli, la scomparsa della mamma, morta ancora giovane, gli anni passati accanto al papà a Villa Rosa, nel cascinale dei fittavoli Magri.

«Capitava che la contessa lasciasse in cortile gli avanzi della tavola – i ricordi arrivano uno dopo l’altro – In estate, quella sottile e dolce polpa rosata dell’anguria rimasta sulla fetta era la merenda di noi fanciulli. E cos’erano quelle sfere marroni avvolte da una specie di tessuto filamentoso? Le lanciavamo in aria e le riprendevamo prima che toccassero il suolo. La volta in cui ci sono sfuggite di mano, con meraviglia abbiamo osservato la sostanza lattiginosa fuoriuscire dalle due metà ricoperte internamente da una polpa candida: erano le noci di cocco, un frutto commestibile, non un giocattolo, ma questo l’abbiamo saputo molto più tardi».

Gli anni della Guerra e la Liberazione

Il periodo della Seconda Guerra Mondiale lo ha trascorso in fabbrica. A 19 anni, dopo la morte del papà, Domenica ha vissuto con la sorella Maria, poi con Santa, lavorando in tintoria al Lanificio Marzotto, nel reparto finissaggio, dall’età di ventuno anni fino ai cinquantadue: un compito che ha svolto con passione coltivando anche amicizie sincere. E condividendo i timori, la paura, di vivere con l’allarme bombardamenti sulla testa.

«Quando una sirena ci avvertiva del pericolo imminente, fuggivamo tutti in Peschiera (attuale Vicolo Castelletto) per far ritorno ai reparti quando il pericolo era passato – ha continuato, accompagnando al ricordo della paura anche quello della felicità – Il 24 aprile 1945 mi sono recata a Milano a far visita alla mia cara amica Martina. Sono partita di buon mattino in sella ad una bicicletta da uomo presa in prestito da conoscenti, in compagnia di suo marito Fausto, di passaggio nel bresciano. La sera siamo giunti a destinazione e il mattino seguente, un’interminabile fila di camionette militari e di camion coi cannoni al seguito avanzava lentamente sulla strada poco distante dalla loro casetta. In lontananza si scorgevano i soldati sventolare il tricolore. E la notizia che la guerra era finita passava di bocca in bocca giungendo fino alla casa di Martina e Fausto. Che gioia immensa! Finalmente la Libertà!».

Dopo pochi giorni l’arrivo in Piazzale Loreto: lì, sulla pensilina del distributore di benzina, fino a poco prima pendevano i corpi di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, poi rimossi per evitare «che la folla accanita ne facesse scempio». Più in là, piazza Duomo, era gremita di gente.

«Tutti avevamo lo sguardo rivolto al cielo, fisso alla guglia maggiore. Alcuni uomini hanno tolto l’impalcatura di ferro che proteggeva le statua della Madonnina, poi lentamente hanno fatto scivolare il drappo nero che l’avvolgeva. Pian piano la Vergine Maria è apparsa luminosa e bella, la fanfara suonava mentre i cannoni sparavano a salve e gli aerei sorvolavano a bassa quota il Cielo circostante. Scrosciavano interminabili gli applausi. Tutti si abbracciavano. C’era chi pregava e chi piangeva. Di gioia. Come me. E’ stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita».

Il matrimonio e i figli

Nel 1951 Domenica si è sposata con Luigi «Bigio» Piovani, all’epoca infermiere all’ospedale di Manerbio.

«E’ stato un giorno indimenticabile – una memoria che ancora scalda il cuore – Era amato da tutti per la sua bontà d’animo e professionalità, l’ammalato nelle sue mani era al sicuro ed i medici stessi nutrivano verso Bigio una stima illimitata. Sempre pronto, sempre disponibile, senza lamentele, magari dopo ore ed ore di movimentata sala operatoria».

I primi passi della nuova famiglia che nel 1952 si è allargata con l’arrivo di Pierfausto e nel 1957 di Tiziana. Una felicità immensa, rotta nel 1974 dalla morte di Bigio.

«La sua mancanza ha creato un vuoto incolmabile, ma ho dovuto farmi forza per crescere da sola i miei giovani figli».

Ma per fortuna non sono mancati nuovi sprazzi di luce come la nascita della nipote Anna e delle sue figlie, le pronipoti Bianca, Cecilia ed Ada.

Dal 1919 a oggi

E così, in un «lampo», eccoci qui. Centodue anni dopo, le spalle segnate dalla fatica, la mente colma di un secolo di memorie, il cuore provato. Ma quando lo si usa tanto, sopratutto per amare, è sempre così. Domenica ha vissuto da sola, in totale autonomia, fino ai 99 anni, e per 45 ha trascorso le sue estati nel piccolo appartamento di Borno, dove tutti hanno imparato a conoscerla e a volerle bene.

«L’amministrazione mi ha riconosciuta come cittadina onoraria: ma la cosa più preziosa, oltre ai ricordi, è il forte legame d’affetto che si è creato nel tempo con i condomini. Per tutti, grandi e piccini, sono la nonna Nani»

Da tre anni ora vive con la figlia e il genero Paolo in via Brescia, ma non ha mai dimenticato l’abitazione di via Martiri della Libertà dove ancora conserva tutti i ricordi di una lunga vita. Addirittura «alcune volte la settimana vi faccio ritorno e quelle due o tre ore pomeridiane trascorse tra le pareti della mia casa sono per me vitali, come l’ossigeno». Un momento per stare con sè stessa prima di tornare dalla famiglia: e si sa, non c’è posto migliore della tavola per godersi il tempo insieme.

«Ho sempre cucinato per quasi cinquant’anni per tutta la mia famiglia: la gioia più grande era quella di ritrovarsi la domenica, tutti e nove – ha spiegato la decana – Ora trascorro il mio tempo al mattino ai fornelli, il pomeriggio mi riposo un poco, leggo, prego, guardo la tivù, parlo al telefono con i miei cari ed i numerosissimi amici, gioco a carte con Tiziana».

Il pilastro della comunità

Lo avevamo detto: la storia non sarebbe stata breve. Eppure, non so voi, noi non ci stancheremo mai di leggerla, ancor meglio di ascoltarla. Una storia sincera, uno spaccato su un mondo, quello dei nostri nonni, che ormai si allontana sempre di più, orfano dei suoi testimoni. Per Domenica Bertoni ripercorrere un secolo di storia, oltre cento anni in cui la vita personale si intreccia con le trasformazioni di un’epoca, non è stato semplice. Lucida e arzilla però non si è tirata indietro, forse anche per l’onore e la responsabilità di essere la cittadina più anziana di Manerbio. Che effetto fa, lo abbiamo chiesto direttamente a lei.

«Beh, provo un sentimento di contentezza: il mattino ringrazio Dio per il dono di un nuovo giorno e continuo il mio cammino qui, in questa vita, con il desiderio sempre acceso di vivere, affrontando difficoltà e accettando gli acciacchi. Fino a quando il Signore mi vorrà con lui – ha concluso – Nel corso della mia esistenza ho conosciuto e ho voluto bene a tantissime persone, ho vissuto mille e mille esperienze, mi sono dedicata con amore e passione alla cura della mia famiglia e dei miei parenti, ho coltivato molte amicizie, alcune delle quali col tempo sono diventate fraterne».

Un ricordo, in particolare, va al legame indissolubile con l’amica Teresa Corsi Guerreschi con la quale ha condiviso per quarantacinque anni la gioia degli incontri pomeridiani presso la sua bottega di merceria in via XX Settembre.

«Verso le cinque del pomeriggio, puntuale, mi recavo ogni giorno al suo negozio e mentre lei lavorava instancabile alla macchina da cucire io riavvolgevo la tela, sistemavo nastri e bottoni tra un confidenza e l’altra col marito Piero, la figlia Renata e la nipote Gloria. Ecco questa è la mia seconda famiglia. Insieme abbiamo condiviso le nostre gioie e i nostri dispiaceri. In questi cento anni ho assistito a cambiamenti epocali che hanno migliorato il modo di vivere di tutti. Gli anni della mia infanzia e quelli della mia giovinezza mi paiono distanti anni luce. Ma li ricordo sempre con tenerezza perché pur essendo stati così difficili mi hanno reso una donna umilmente coraggiosa e forte».